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STEREOSCOPIA D’UNO SPAZIO

ANEDDOTI ALL’OMBRA DI UN GIRADISCHI

Ritorno, poiché s’incomincia da un espatrio d’accoglienza. Il mio è quando le mie gambe varcano soglia, lasciano abbracciar la porta alla parete portante e la fame per principio s’insinua nelle viscere come un mendicante senza riposo. Allora, assecondo. M’bbàndono, riponendo la borsa trafelata di voci risolute all’angolo sporgente della scarpiera, sfilo dal corpo gli indumenti, mi ingegno in qual maniera e, dopo aver acceso la luce d’ingresso, mi dirigo verso la finestra che fa verso alla via. Afferro con negligenza il manicotto del camice e – non avendo ancora adoperato tenda – lo allestisco in modo da celare quel che accade all’interno di casa. I vicini lo notano, che non m’addormento alle otto di sera. E’ primordiale, prima di appostare di fronte ai fornelli, mi calo verso i vinili ed estrapolo una copia in commercio, ma non di mercato. Sono i Men I Trust. Io m’identifico – affermo con un certo rigore – nella comunicazione svasata di una melodia come quella dei Men I Trust. E poi, sempre d’uomini si discorre, a sapersi. Il disco labile inizia a fremere sottostando alla pressione della punta, gli altoparlanti di serie B graffiano estraendo rumori ostentatamente dilettevoli. Cucino, dunque. Classicisticamente, filo d’olio in padella, classicisticamente spaghetto in pentola. Classicisticamente, senza destar rigore sul grammo. Pesto, rifilato. L’acqua bolle, il mestolo di legno m’invita a mescolare con indulgenza suggerendomi di rimanere appesa a bordo vasca per rivedermi meglio nel sale travasato. Il giradischi prosegue. Ritorno, mi convinco. Rìtornare è riscrivere, ridimensionare stati in funzione di traslazioni che inseguo su soffitti alti e grezzi. Il ritorno in abitacolo – e mai a casa – mi concede nuovamente di esorcizzarmi nella fragilità di presunzioni che hanno il tempo di morire, favorendo una riuscita parziale nel capovolgimento della semantica realistica, ma coercitiva, del senso di adattabilità. Le mie, sono cerchi. Le tue, sono cigolii. Le mie virgole, le tue intransigenze. A incastro, le penne disputano, brontolandosi l’una accucciata all’altra. Perché mai voler sempre compattarsi, non appena il mestolo non giocherella? E’ una risposta – sorrido – che già mi piace poter pensare di conoscere. Per pochi attimi, m’appoggio al piano della cucina e scostando la bacchetta, opto per la padella antiaderente, occhieggiando al condimento. In quei brevi frammenti di moto, mi vien da ridere un pochino e da stagliare gli abiti come a potermisi spogliare delle foglie che ricoprono il mestiere della vita normativa. La banchina di onomatopee si digrada. E’ finito il disco, debbo cambiar lato. E’ pronta la cena. Tu t’avvicini a me, e con quel fare da neofita geloso, ottenebrante, mi dici che se voglio, scoli tu.

Fài pure, se ti fa contento. Io – confesso – con l’acqua, mi scotto (quasi) sempre. Gli spazi non li leggo, la mia topografia vuole essere melliflua. Il disco riprende a parlare in versi, non concedendo eppur l’intesa degli accoramenti. I colori appaiono rubizzi. Anche la musica, a volte, torna a casa.

E così io preservo quel che onestamente è la verità della mia storia. La gentile poligamia collettivizzata dell’alterità presente, nella singolarità del me.

Parasìsdì – Susseguo ‘che. 2020 Fotografia a cura di © Alessandra Stanisteanu.

Una rubrica a cura di © Alessandra Stanisteanu, 2022.

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RIMEDI CONTRO I CAPELLI BIANCHI

POCO-BREVE STORIA DI INQUILINI ALBINI IN CERCA DI CASA

Permettendo spazio alla discontinuità ideologica che mi caratterizza alle prime ore, mi sveglio, dischiudo la finestra ed inizio a transitare ruminosamente per la camera per poi inclinare il busto di poco in avanti, spingendo ad introdurmi verso il bagno. Il bagno è nuovo, sconosciuto, familiare, luminoso. Uno spiazzo a led attribuisce una modesta lucentezza allo specchio, che occupa buona misura sulla parete piastrellata a cui s’appoggia. Sosto davanti al lavabo e inerme mi osservo, per qualche minuto. Eseguo qualche smorfia, metto in moto le mani, i palmi si aprono e chiudono intermittenti, faccio muovere i gomiti, espando le narici e la sequenza diventa un gioco a riconoscermi nell’analogo riflesso esterno, la “comparsa” emisferica contro-laterale sull’altro lato della realtà adesiva. Un classico cinematografico, forse.

Noto con riluttanza iniziale che un nuovo capello bianco emerge, subentrando al contratto d’affitto annuale rinnovato indeterminatamente dagli altri cinque o sei inquilini, sparsi per la frangia disordinata. Converso con me stesso e mi riscopro definendomi  la parte locatrice “disappartenente”, disinteressata: per me puoi star qui finché vuoi, basta che sottostai alle minime norme della buona convivenza civile e paghi, trimestralmente, l’affitto. Sì, un contributo trimestrale, preferisco. I coinquilini richiedono un aumento dell’offerta qualitativa all’abitacolo – lavori di manutenzione o riparazione routinari – e intransigenti optano per farmi prenotare una visita dal parrucchiere. Io, nonostante abbia a cuore la loro buona salute, anche questa volta rimando e con sufficienza inalterata sorrido replicando con il silenzio. Benché l’intenzione iniziale mi motivi a sfrattare la clientela in cambio di qualche ora di normalità e quiete, l’esito finale è sempre e comunque uno solo: alle volte ci passo le giornate, ad ispezionare l’abitacolo in cui alloggiano. La forma percettiva della testa – in comodato d’uso –, gli spigoli delle discrepanze cutanee, la spazialità recepita delle gambe, le sopracciglia che corrugandosi si nascondono ogni tanto in loro stesse per non pagare i tributi (evasori fiscali). Ma i capelli canuti, mi ci soffermo. I capelli chiari, rappresentativi dell’anzianità e della transizione temporale, il simbolo dell’efficacia invadente e pervasiva di ciò che si interiorizza per espressione esperienziale, i capelli dal bianco semantico, associativo, quei pochi eletti che schiaffano sulla superficie speculare la visibilità di un’impronta, e che mi aiutano a reiterare un impossibile, ma sostanzialmente essenziale dato legale: per causalità, ogni proposta vissuta che lascia un notevole segno, interpretativo. È il verbo delle cose accadute, è il predicato degli accaduti esposti e rielaborati. È la verità propria e quello che ci fai, con la verità implicitamente orpellata d’improprio. Aggrappati, avvinghiati, appesi a quei capelli, ci sono le parole che s’inter-scambiano nell’aria, le stimolazioni captate, le risposte elettro-chimico-fisiologiche espletate, o fallite, gli istanti appercepiti, e gli individui con cui hai dialogato.

E allora, dunque, per tal ragione, ci ripenso. Il capello bianco non lo sfratto più. Mi è amico datato, mi fa raggelare il sangue, mi appesantisce il capo, mi esalta i capillari, mi svilisce i vascolari, mi comprende quando taccio. E quelle azioni rimaste a mezzo soffio d’aria, pur loro si rivelano correlativi, purché non essendo efficaci moventi nella consequenzialità di un colore ossigenato e privato del suo indumento colorato. Inquilini che girano nudi, per casa. I capelli bianchi si innestano indomati nelle nicchie capellute, si stanziano regolarmente, ma narrano dell’irregolarità. A questo punto, allo specchio, socchiudo gli occhi e lascio avvolgere le iridi dalle palpebre fino a vedere nulla se non scuro. Sorprendentemente, la categorizzazione dell’oggetto capello albino persiste nelle prime pieghe dei recettori oculari. Apro, e con una dolcezza innominabile mi fingo lamento. Che fastidio, i capelli bianchi, sarà genetica: mio nonno sbiancò presto, mio padre sbiancò presto. Sbiancarono presto, davvero?

Se è genetica, se è molecolarità, se pare diffusione di codifica replicativa, allora probabilmente lo è, ma non del tutto. E qui, potrei fare un riferimento richiamato “breve” alla centralità epigenetica adattiva, ma rifiuto e continuo a non voler deturpare una così semplice fuga di idee. I capelli bianchi hanno pagato anche oggi l’affitto. Li debbo rimproverare, però, della loro assenza di interesse condominiale: l’amministrazione mi riferisce che tendono a fare sempre un gran rumore, durante le ore notturne. Correranno energizzati sulle pavimentazioni dimenticandosi i vicini ai piani sottostanti. E allora li rimprovero, dicevo, ma in fondo so che il vicinato circostante, tutto imbrattato e definito dall’indumento nuovo e stravagante, può anche un poco arrangiarsi, e andare caldamente a quel paese. Mi spettino la frangia, la mia età non ha una voce.

Forse, se mi va, li sfratto domani. Oggi no.

I capelli bianchi destano scandalo, forse, ma loro dicono la verità, o qualcosa che gli ci assomiglia, inevitabilmente. Esco dal bagno, mi dirigo verso la cucina. Immobilizzo ciò che tutto intorno si vede.

Mi correggo – loro sono la verità.

Un’idea progettuale narrativo-fotografica a cura di Alessandra Stanisteanu ©.

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LA CONTRO-TENDENZA AL REGRESSO PER EVOLUZIONE

UN’IPOTESI COMPOSITA

Accade questo: stretta, a-specificatamente anacronistica, la voglia di argomentare occhieggiando alla fotocamera di quello che è, probabilmente, quello che vedo io, quello che vedi tu. Sguardi fugaci, così si articola un rapporto intimo all’interno di una camera. Steso, indigente e fuori da ogni parametro e presupposto congiunto, qualsivoglia appreso, conosciuto dagli altri. Ci si prova, ci provo, dico. Nonostante io sia nell’altro. Nonostante io sia l’altro. Le braccia accompagnano, il torace si muove, il petto segue la pancia in un respiro costante diaframmatico, l’ambivalenza concorre e per un solo brevissimo inconcepibilmente rapido istante, la vedo: è la smania di parlare dell’emozione sentimentale da cui tanto mi discosto, come fossi in un luogo affollato laddove volti e disforie s’incontrano senza però raccogliersi. Chiaro, allora, inizio a non voler discernere e finisco per scavare intorno all’innominato sostantivo idilliaco del sentimento affettivo una sorta di fossa concava dagli spazi accoglienti. A fine scavo, mi c’affaccio. Tutt’apposto, mi viene da infierire. E’ un sentimento.

Che poi, l’affetto, l’attaccamento, la prossimità familiare con qualcuno, la sentimentalità dell’amore, ho sentito più volte dire fosse “la cosa più potente dell’universo”. Lo si esplica nella mediazione post-conflittuale, nella promozione al benessere, alla pace, al raccoglimento, all’eguaglianza, alla parità. Cosa muove l’accezione dell’azione mai protopatica, sintattica, del bene? L’ a-mors. Non per volta, a caso. Per chi è poco romantico o diffidente e quasi accorto, più sentimentale di quel che si ritiene e dotato di una sorta di sensibilità di cui medesimo si spaventa, l’amore è una scopata. O una scopata è una scopata, e basta. Ci si ritiene più sinceri a parlare con se stessi con determinati attributi o nominativi scelti. Quello della scopata che rimane scopata, è un caso anche personale.

A-mors è grande e, senza troppi giri di parole, è inquantificabilmente inesprimibile. Non si potrebbe accostarlo alla veridicità con cui l’occhio comune identifica e incamera un significato, come quello, a una parola che si traduce in immagini stereotipate di coppie che per affusioni si stringono la mano, si accarezzano, si vogliono bene lì, in due. Dimenticandosi che restan loro. Uno, e uno. A-mors funzionerebbe lieve diversamente. Sono ai bordi della scrivania, le iridi rincorrono il trattino sulla pagina. Mi giro dalla parte del telefono e penso a quanto possa essere di ergonomia un ventilatore che batte dietro la faccia. Dove sta il capello.

E allora lo dico, dai. Con chi mi litigo? Con l’espressività del sentimento d’amore. Per poco, riesco a interiorizzarne un nuovo diversivo, un senso che preferisco accostargli da sempre: “la cosa più potente dell’universo”, come diresti tu. Non perché rimanga unilateralmente un sentimento che muove l’altro a me, o me agli altri, o gli altri all’altro. Non perché provandolo ci si cambi d’abito solo in-amore, nell‘amore, nella relazione, nel connubio io-te, nella pluralità del noi. Non perché invogli a trasformarsi per e con l’altro, non perché conduca a costruire, progettare, contro la realtà del tempo. Altresì, non la cosa più potente dell’universo. A-mors è, però, il sentimento più forte in fatto di opportunità e potenzialità capacitativa. E’ la cosa più forte, forse, della realtà emozionale umana. Io non penso di essere chiaro, quando ci parlo. Tambureggio con l’indice sulla planimetria della tastiera. Il ventilatore fa il suo mestiere.

A-mo-re è psicofisiologicamente un aggregato di rilascio e contrappasso ormonale, un processo metamorfologico e trasformativo che – rimango cauto nel digitare – trova la sua decantata meraviglia e potenzialità nella sua abilità di rendere dell’uomo, un uomo dis-naturale. “Sapiens”, potresti dire tu. Va bene anche così. Com’è che una roba come l’uomo, diventi dis-naturale, non naturale? Nella primordialità storica la natura istruiva l’uomo all’adattamento predatore. L’uomo predatore, o l’uomo solipsista senza saper di esserlo. L’uomo naturale era quello elaborato alla sopravvivenza. Poi c’è stata di mezzo la progressiva civilizzazione, il contatto, quel continuo tintinnio di campane la domenica, l’aggiunta, l’abbondanza, la complessità crescente della volontà di attribuzione del senso, tentativi di aggrapparsi, di toccare, di sentire. L’urbanizzazione. Il restauro dell’emozione. Così allora vien da dire che è tutto merito di a-mors, a fatti espliciti. A-mo-re di curiosità, di detersione, di espansione, che guiderebbe l’essere umano per secoli a spingersi al di là della sua programmazione evoluzionistica naturale: un progresso evoluzionistico contro-natura, contro l’aggressività dell’appartenenza sopravvivente della preistoricità. Ci provo, lo ripeto. Questo è amore forte, quello che stravolge uno pseudo-patrimonio corredale genetico. Un nuovo motore, un’altra matrice.

Gioco con le gambe, lievi colpetti attutiscono l’aria proveniente dal ventilatore. L’aggressività umana è un abbraccio difficile, e l’amore è un senso che l’abbraccio acquista da un ometto dubbioso a buon mercato. Il romanticismo è quello che riesce ad insinuarsi per indurre alla metamorfosi. Mi restano pochi soldi in bocca. Domani vado in posta, si sa, la bolletta di chiusura. La comunità. L’integrazione. Rimane bello anche così. L’aperitivo in centro, le vostre parole, le sigarette tra le labbra, fa vedere cosa esce a luglio, Jessica ho cambiato casa, c’hai un euro che vado al distributore?, l’amica, la tua faccia del cazzo. Rimane bello anche così. L’amore è, in effetti, “la cosa più potente dell’universo”.

Ambivalenza, Mantova, 2021. Fotografia a cura di © Alessandra Stanisteanu.

Una rubrica a cura di © Alessandra Stanisteanu.

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(senza/con)

Lasciando, si parte dal lascito alle costruzioni. Retoricamente, s’incomincerebbe scrollando lungo il sud delle scapole tutto quello che al pensiero e alla parola aggradano per un significato che riempie metafisiche e quotidianità motrice – le emozioni, il sentimento, la motivazione, l’autorealizzazione, la finalizzazione o la completezza – per potersi sempre più accorgere della sottigliezza e della caducità dell’azione a mano d’uomo, che non solo si concretizza per un mezzo e per un nome, ma per uno scopo. Lo scopo sarebbe il congiungimento armonioso tra l’uno capo e l’altro termine della punta di una qualsiasi cosa, l’egoica trascendenza che monta sulla voce che cerca responso, identificazione, scelta, senso di esistere nel mondo caotico della velocità. Non trovo tempo per la solitudine di un illogico trattato tornaconto meta-narrativo come quello della vita del pensiero umano, quanto ne risarcisco attraverso una scolarità docile e stipite di tangibilità, materialità e forma. La congruenza vigente entro le cinque connotazioni categoriali sensoriali adottate per rappresentanza analogica e morfologica dall’uomo (tatto, udito, vista, olfatto, gusto + una bella etichetta extra, la presunzione) nasce ed evolve in percezione di senso compiuta attraverso un maggiore consenso consapevole nel momento in cui la psiche, la mente, la patrimonialità dell’ingranaggio ideale giunge a formulare un obiettivo e/o una risposta quanto più paradossalmente soggettivo-assolutisticamente accurata al suo annaspare tra le cordialità remote del dubbio e dell’incertezza di una vita che mai ha regalato e mai concederà all’essere umano l’immortalità del suo senso d’agito.

Potrei rinominarmi uno come il certo signor Bauman, reiterare sul plastico e arrendevolmente apparente nominale di società liquida, vita liquida, e altre stimolanti giostre sue, non sue, nostre, vostre; non toccherebbe all’altro quello che a me tocca nel rimuginare con avidità e senza alcun consueto fuoco di lucidità su ciò che realmente è, l’azione dell’uomo, nell’antitetica formulazione del tempo, con le sue linee, il suo luogo, le sue direzioni e le sue contraddittorietà. E’ con le vetrine della dimensione virtuale che, giusto, abita la possibilità di osservare quanto una condizione di condanna e di critica odierna raffiguri in verità più di prima la conservazione e l’impreteribile essenzialità del voler agire e intendere in funzione dell’altra cosa da me, dell’Altro di fuori da Me, come direbbe analogamente un autore come Lacan, un filosofo come altri Heidegger, altri Hegel; dell’estraneità che abita al di fuori del confine individuale e psico-fisico della persona in quanto tal’-uno – e ci metto l’apostrofo, perché ne necessito. E’ l’intimità che è nel “mercato”, o nella condivisione. In una vista, nelle mostre, nel portfolio, nei riconoscimenti, nel corso di marketing avanzato che hai concluso l’altro ieri. Tu sei, dicono gli altri. Tu sei, e tu diventi, a mano a mano. E nella giustapposizione quasi impercettibile tra singolarità e recondito desiderio di ammetterne l’incidenza con il collezionismo e la collettività, ecco come si potrebbe vedere scomparire lontano ciò di cui sempre mi meraviglio tanto: la forma di contenimento dell’esposizione.

L’immortalità è a questo punto doveroso esprimersi come intoccabile nella versione che più si avvicina ad una verità universalmente se non piaciuta quantomeno accolta, ma ha la possibilità di essere immoralmente infinita per gli istanti in cui riesce, grazie agli strumenti adeguati, di rimanere appesa ancora un poco ai bordi della recinzione vitale, come fosse un palloncino legato al lembo di un lampione che resta lì a significare e significarsi chissà per quale indicibile e poco prevedibile lasso di tempo. Qualcuno ne leggera i colori, altri lo additeranno, ancora ne custodiranno il segreto, per l’eternità che tocca a ognuno di vivere. Va bene così. L’uomo contemporaneo soprattutto ora ha l’illusione di poterne raccogliere ed estendere oltre il decorso degli anni l’essenza attraverso l’evoluzione tecnologica, artigianale, artistico-prefilosofica, testimoniale. Il ricordo dell’esperienza svanirebbe senza l’occhio altrui, io non esisterei senza te. Potrebbe essere fuori luogo chiamarlo “principio”? L’uomo preistorico si assuma sia stato impossibilitato a fare elenco. Se vado al parco, voglio testimoniarlo. Se prendo il caffè con Luca, voglio lasciarlo, anche per un solo frammento di secondo, in pasto alla documentazione. Se porto a termine un percorso di studi, tò!, mi sono laureato anche in una immagine. Lavorare, affermare, dire, dialogare, postare, fotografare, lasciare impronte che sembrano rimanere ferme e granitiche davanti al moto trasformativo della terra. Ma alla terra va bene, e a me pure, ripeto, va bene. Va bene, perché nulla di per sé si concilia in un intrinseco significato di modo, se non nell’istante stesso in cui ha la potenzialità – che per molti sarà difetto, dedurrei – di frammentarsi e confondersi nell’atmosfera della storia. Questa è la potenza di una vita, nei confronti dell’azione umana. Al contrario e insieme, la potenza dell’azione dell’uomo, nei confronti nella vita, risiederebbe nel non temere la confusione. Cosa direbbe, uno famoso che sa parlare meglio di questo monologo? Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha, probabilmente? Con la A, di ha, estesa. Mi pare fosse una canzone di Vasco, o Zucchero. Non saprei. Da piccola li confondevo spesso.

Ecco. Chissà domani cosa ne diviene. Adesso, questo è un palloncino lasciato. Al lembo di un lampione.

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Cervicale C1, C2, C3 – Tesla Mandibolare

Cervicale a cerchio, radici C1, C2, C3. A partire dalla quarta, la risposta trasla evaporando nell’epicentro della discontinuità. M’alzo, mi corico ancora.

Nella stanza la finestra schiusa, il lenzuolo circense a ruota e gli indumenti accatastati. Paraurti nella nebbia, fanali in sospensione. Due suoni – uno sordo, l’altro sente. Torno a tracciare geometrie inconclusive, come fosse la mia spina questa colonna vertebrale dagli anelli in nota C. Tesla mandibolare in ottava maggiore.

Progetto fotografico a cura di ©Alessandra Stanisteanu.

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LA SINGOLARITA’ RIPETITIVO-DUALISTICA

SINTOMATOLOGIA DEL CAFFE’

Ticchettìo. Ticchettìo si dice? Ticchettìo di pioggia. Come un ladro disarmato, mi sveglio lentamente, mi sviscero dalle coperte, mi dirigo verso l’erogatore di caffè. Accompagno le gocce d’acqua che scendono al suolo con i passi, vado a ritmo. La macchinetta brontola. Ed eccoli soggiungere, arrivano. I fuggiaschi, le parole camuffate da pensiero. Iniziano a correre, s’intensificano e la prima sensazione che elaboro è quella di un fastidioso contraccolpo. Va bene, penso, mentre agguanto la tazza. Allora sommessamente mi posiziono alla scrivania, appoggio il caffè, di fronte ho il monitor e rocambolescamente faccio scorrere l’indice sulle lettere della tastiera in senso antiorario. Disegno piccoli cerchi, cerchietti. Sospiro e mi abbandono all’idea. ‘Ti detesto’ mi rivolgo alla tastiera. La detesto davvero, incarna convenienza e celebrità, rapidità, immediatezza. Scrivo così.

Da bambina, accompagnavo mio padre al bar appresso la farmacia, qualche centinaio di metro a separarli, strade inaridite dall’autunno, inumidite dallo scroscìo delle foglie ingiallite. Aveva questo modo di irrompere, di scattare, di ordinare vezzeggiativamente il caffè per entrambi. Mia madre lo beveva con lo zucchero di canna, l’uomo affiancatoci richiedeva sempre il miele. Quelle buste microscopiche arancioni, definite da chissà qual portento di marchio alimentare in vetta durante il primo decennio del duemila. Insomma, aperta la busta, chiedeva a me di versarne il contenuto nella tazza. Io, da bambino spasmodicamente disegnatore qual’ero, tracciavo con il miele le linee curve che avrebbero dovuto comporre e chiudere l’onda di un cuore. E lì, mio padre compiaciuto aveva avuto quel tratto di compensazione richiesta da parte di un figlio che sarebbe poi divenuto anarchico solo a metà.

Durante gli ultimi anni del liceo – questo ricettacolo quinquennale di favoritismi e crisi identitarie – presi l’abitudine di passare presso i distributori a raccogliere caffè di primo mattino. Di prassi, poteva essere fatto anche durante l’intervallo di pausa a metà giornata. Dunque, io solevo rifarlo più volte nell’arco di cinque ore, così come i compagni che mi accompagnavano lungo i corridoi. Era una competizione a chi per primo diveniva adulto, non grande. Ho iniziato con il caffè dolce: tre tacche. Poi, andavo progressivamente a diminuirne il quantitativo, poichè il dolce sulla lunga trasversata annoia chi di noia facile soffre. Ho cambiato nuovamente con l’avvento dell’università. Lì c’era altra aria, altro sapore, altra voglia. Al caffè si univano le sigarette. Il caffè poteva nascere da una capsula, da una cialda dimenticata in armadietto, da una moka, da un momento, da un’incomprensione, da un segreto. Camel blu, Camel gialle, Lucky Strike, American Spirit azzurre, gialle, trinciato, Merit Bay, Marlboro oro, light, might, tight spot. E andava in tendenza il retrogusto duro, amaro, quello arabico direbbe l’europeo. Così ce ne stavamo con le nostre tazze bollenti e le nostre sigarette pendenti tra le dita, a blaterare dell’una e altra cosa: di quanto Aristotele avesse monopolizzato la sensorialità degli avventi filosofici, di come il sistema istituzionale italiano facesse apprensivamente cagare, di quando lei si prese una cotta per Daniele all’angolo dell’adolescenza, di quanto discutibile e francamente anti-meritocratico fosse il canale d’istruzione didattico e di quale strumento avremmo potuto suonare la sera dopo, prima di cena. Poi ci si chiedeva quanti esami avremmo dato la sessione successiva. Ad alitarci contro le nostre visioni. Era il rito della retorica. E dopo è arrivata la pandemia virulenta.

Lo sfondo lo delinea Guccini con Canzone delle Domande Consuete. Do retta a Guccini quando so di non poter dare retta e addito a me, conseguentemente la sua musica riesce a perforare il mio canale uditivo senza passare per il filtro di mezza via. E mentre questo individuo espelle fuori nauseato e concitato allo stesso modo le sue banalissime incertezze universali, io esprimo le mie con un venale e spassionato disappunto. Ritornando al mio caffè, valuto il senso che si cela dietro alla coltre della mia gestualità: ora lo bevo con un cucchiaio di miele. Senza non mi tocca, come fosse privato della sua intrinseca motivazione all’esistenza. Un macinato di amarezza con la punta dolce del mio sintomo – uno spettro patologico che fa breccia tra le mura innalzate della falce berliniana. Rendo nutrimento alla ripetizione inconscia dell’eredità fantasmatica del bagaglio sintomico e mi accorgo che è tutta lì la mezza replica al quesito. Non nella mia parsimonia, nemmeno nella mia incoscienza, nella mia non-scienza, nella mia volontà di potenza. Ma lì, nella lieve e acuta traslazione del cucchiaio alla tazza, nel miele che si lascia veicolare, nel tuffo. Nell’accoglienza e nella premura capillare della sintomatologia remota. Nel mio caffè con il miele.

Guccini si spegne. Cosa ne vorrà mai sapere, uno come Guccini. Me lo domando in maniera sincera e fuori la pioggia si accascia. Caffè ripetuto con miele.

Mattine imperversano, 2020 – Fotografia a cura di © Alessandra Stanisteanu.

A cura di © Alessandra Stanisteanu

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L’ETICA DELL’AUTENTICITA’

CONCEDERSI ALLA DISTANZA PER POTERSI REINVENTARE SUL PALCO DELLA META-FAMILIARITÀ

BREVE TRATTATO SUL MALINCONICO OGGETTUALE

Partire, rivolgersi, alimentarsi e tornare, voltarsi: è il ciclo indissolubile del viaggio all’interno del quale la meta non assume più la rilevanza prediletta dalla regola. Quando si nasce, si è soggetti biochimicamente blaterando ad alterazioni secretivo-ormonali materne del sistema dopaminergico e affiliati quali l’espletamento e il rilascio in sangue di ossitocina e principi abbozzati di molecole organiche come dopamina e adrenalina, filosoficamente apostrofati come promotori neurali dell’amore. Si evince, pertanto, già dal principio dell’esistenza un attaccamento biologico e – attiguo successivo – deterministico e affettivo all’Altro in quanto – per aspettativa precoce – prolungamento esteso del senso di vita proprio, e i conti con la difformità dell’ultimo arrancano a pieni passi solo dopo aver marciato sulle prime fasi dello sviluppo natale. la realtà subisce metamorfosi kafkiana e dall’onirico si trasla al malinconico oggettuale: il soggetto, in pieno riconoscimento consapevole del movimento ondeggiante della marea ambientale interpersonale e della meccanica del cuore induttivo, nuota privo di branchie autosufficienti contro le correnti dell’accondiscendenza. S’intende ora che il bambino interiore si interfacci alle dinamiche sistemico-familiari: oggi mi sveglio, preparo le valigie, disegno tratteggiando le prime linee del contorno e, salendo con i piedini sulla locomotiva per l’ignoto, mi trovo in mezzo a gente che ancora non conosco, per volere delle voci dell’Altro, ancora e per sempre. Mi trovo dentro questo mucchio di banchi da mercatino detto “famiglia”. E cosa accade, d’ora in poi? A chi lo domando?

L’ennesimo e interminabile dibattito dal dualismo audace natura/cultura s’insinua vertiginoso a stipulare le norme e i parametri secondo cui gli autori poi trarranno definizione: la famiglia eco-sistemica – insieme di sconosciuti con cui geneticamente si condivide patrimonio anatomo-fisiologico e culturale e dal quale, arrivato ad una certa tappa di istanti vissuti ci si vuole o ci si deve necessariamente disgregare per potersi lasciare all’espressione della sviscerata tracotanza dell’essere e di quell’antipatico senso d’identità, che una tale Melanie Klein circoscrisse alla costruzione del mondo interno attraverso processi ontologicamente significativi di proiezione identificativa, oscillanti tra posizioni delineate conseguentemente schizo-paranoide e depressiva. Da cosa fugge, il bambino? Da cosa fugge il genitore? Dalla separazione, dal lutto. Talvolta, dallo spartiacque generato dal diaframma del conflitto. Qui e per tutta la durata degli anni vi è un’elevata percentuale di probabilità che si manifesti l’incongruenza a carico della parentela nella formulazione di tutte quelle norme convenzionate e nobili che vanno a influenzare il costrutto familiare: la legge della mente categoriale sancisce per etica adeguata e immediata l’inconfutabilità e l’onnipresenza del contatto e della prossimità dei membri: genitori e figli, sotto lo stesso tetto, sviluppano una sottospecie di dipendenza prossimale l’uno dall’altro, senza spesso e volentieri concedersi tempo e volontà di contemplare e accogliere la diversità dell’espressione. Sopprimere il paradigma comunicativo è il compito considerato migliore nel mantenersi vicini in assenza di essenza. Così, il “divorzio” non avviene, a fin di buone permanenze: il genitore desidera il bene effettivo del figlio collimato al bene pensato e partorito in sé, nonostante possa influire sulla condotta e sul benessere psicologico del bambino in maniera irreversibilmente disonesta. Inevitabile, però, ammettere che i gradi di separazione fungono da nutriente indispensabile alla parafrasi di un testo letto con le lettere del progresso e della crescita singolare e plurale dell’individuo. Il fine ultimo di restringersi l’uno all’altro in luoghi del corpo e del cuore stipati e addossati nel decorso delle esperienze – così moralmente piacevole e utopico, grandioso, onnipotente all’Ego – se portato all’estremo non si rivela essere nient’altro che una menzogna che ci si racconta a vicenda per non poter sopperire alla fatica dell’incontro con il crollo più profondo delle aspettative egoistiche del proprio individualismo. La famiglia non dovrebbe essere edificata in virtù del legame, ma in virtù della distanza. Nessuno potrà mai essere qualcuno in grado di scrivere il sistema familiare come inderogabile e convergente luogo di principio, fine, adattamento e libera e veritiera espressione dell’Io, poiché la natura degli accadimenti ne impedisce l’imprescindibilità dell’appartenenza, a significare: io, genitore, non do genesi alla vita della prole per poterne soffocare la possibilità dell’itinerario poi, bensì delego la vita della prole per potergli insegnare la possibilità della partenza – e, eventualmente, dell’incertezza del ritorno. Ovunque, quandunque, che sia a chilometro due o a chilometro trecentosessantaquattordicimila. Il contatto, seppur rarefatto, deve significare e deve generare significanti agli interlocutori; la famiglia deve aver senso come luogo di ristoro e di interazione, solo se spontaneamente slegato dalla condizione basilare e pseudo-morale della coercizione prossimale, che a lungo si merita il premio conturbante dell’ambivalenza e della corrosione viscerale affettiva. In altre parole, la famiglia non è necessariamente riparo, ma lo può divenire per scelta, tralasciando quelle condizioni di unione biologica che di punto possono nuocere alla rappresentanza dell’autenticità famigliare. Ulteriormente, famiglia non è casa, casa non è famiglia, e famiglia è laddove la parola e l’azione s’intrecciano libere e conflittuali, evolutive, mai sature, mai sazie.

Il genitore è colui che lascia in eredità il biglietto di sola andata al figlio, non colui che lo trattiene e per valore ne induce il ritorno. Non toccarsi spesso o a lungo, non significa non sapersi tangere in maniera trascendentale. Non vedersi spesso o a lungo, non significa non sapersi guardare. L’etica del nucleo e dell’amministrazione alla sopravvivenza non induce all’etica dell’amore, sentimento che supera qualsiasi nozione canonica o aristocratica che sia. Tra fango e acqua, il padre, la madre e il figlio restano tali se reciprocamente voluti, conosciuti, esplorati e accolti in infiniti percorsi innestati di forme e menti incondizionatamente. Correre insieme, o corrersi incontro? E’ sempre in balia dell’ingranaggio dell’animo giocare con i termini della verità, quasi spudoratamente incosciente a preferirne la lontananza vicina al libero artefatto della felicità dell’essere come si è e si vuole, piuttosto che la vicinanza lontana e vacua del costume familiare debito ad un canzonatorio mos maiorum post-moderno.

Frammenti di Una Corsa nell’Ilarità. Emilia-Romagna, 2019. Fotografia a cura di Alessandra Stanisteanu.

A cura di © Alessandra Stanisteanu.

DA MARE A MARE-A

QUANDO L’INVOLUCRO DELLE POSIZIONI NOMINATIVE LASCIANO SPAZIO ALLA DELIBERAZIONE

Agosto non è agosto, tantomeno suona come un pianoforte ad annunciare l’imminenza dello scorrere del tempo. Per me è così; il tempo in quanto artefatto, artificio strumentale, non esiste. E allora cerco di distendere il corpo per poi flettere la schiena contro la grata murata di un qualsiasi edificio emiliano su cui mi ritrovi ad accendere una sigaretta, o a parlare. Parlare celere, poi piano. Perché parlare stufa. E parlare scende, per poi salire senza alcun richiamo.

Adesso parlerò di te, come se mi rivolgessi al mio cerchio insondabile di terra battuta, ammicco. Mi piace parlare di te, ma quel poco, quel dettaglio giusto da estrarre come un asso dalle mazze. Quindi rivolgo la testa altrove, non ti guardo molto. Ho smesso di temere il cambio in folle in rotonda. Mi si è spenta la macchina tre volte, all’inizio. La terza, l’ho confusa per la prima. A ripartire in terza è impossibile, sai? Punta-tacco. C’è un leggero dislivello sotto le radici del veicolo, un tempio in lontananza, qualche vecchia spina tra le coste del torace. Quelle dove alloggia il Mar Batterico. Ammassi di bacilli.

Dicevo, mi si è spenta. Son ripartito, ho pensato a te, alla lentezza conta-gocce della procrastinazione manuale che ti contraddistingue. L’ho fatta ripartire, la rotonda era grande, e ho spinto sull’acceleratore con un accenno di pianto inusuale. Ho ripreso l’auto un giorno dopo, guido ora come se non fosse mai successo niente. Sono fluido, non temo, a volte mi distraggo e visualizzo il paesaggio scorrermi a metà. La musica solitamente è alta, sul sedile del passeggero un lui differente, ma quasi stabile. Lui, lui, lui, ma anche tu sai che io sono sempre “Lei”, senza Lui. Come tu, sei tu. Quando metto in marcia, capita che alle volte straordinariamente mi rammenti della difformità che a noi apparenta. Una disgregazione che raccoglie, qualcosa. La differenza sta nel braccio. Il mio è più brutto del tuo. Più grezzo, addomestica con decisione il cambio. Ci vuole perseveranza, anche tu ce l’hai. Io però li supero, i 70 km/ora. Se ti dicessi che arrivo ai centoventi in tangenziale, mi cercheresti con uno sguardo sufficiente, sbufferesti una nuvola di fumo e mi diresti: “Chi va piano, va sano e va lontano”, con quel tuo accento nostro, di una terra – una di tutte, in verità – nella quale non mi riconosco se non attraverso te.

Quando torno, vedo un numero maggiorato di svariati volti. Ci sediamo, hai un modo tuo di riaccogliermi dopo quelle tante facce tutte perse. Poi c’è la tua. Cambia tono, visualità, circumnaviga sugli incontri che abbiamo. Oggi hai gli occhi stanchi, domani le palpebre vivaci. I ruoli si perdono, s’invaghiscono dell’incertezza dell’imprevedibile decorso esperienziale, gli anni si accorciano e i corpi si scoprono dai loro ruoli “costumi”. Non esistono figli, padri, madri, amanti, sposi, amici, fratelli. Di certe storie, restano le circostanze, di altre restano le affusolate parole che lasciamo svolazzare inconsistenti nell’aria. Anche l’atmosfera ha il suo peso. E il suo silenzio. E il suo ronzìo, non dire che non è così. E quando appoggi il tuo capo sopra la mia spalla e ogni cosa va fuori fuoco, l’arnese fotografico non funge a nulla e la futilità di quel capovolgimento semantico che travolge scuotendo i racconti, è l’unica cosa reale che conta.

Potrei parlarti di quante confidenze ricevo, di come mi rendano partecipe delle loro notti, di come si aspettino da me nient’archè di tasca, logora come quella del mio pantalone. Potrei confessarti qualche dubbio, ma l’età dei vent’anni vale come qualsiasi altra età elegiacamente formulata dall’intelletto umano. E ti basti sapere che a me, la forma del “pronome” del mondo, continuerà a non interessare. Al momento stacco, so che sei in ferie. Ci vado a breve anch’io, mi nutro di ogni sole nuovo che vedo. Ho una nuova passione per gli specchi, il legno d’acero, il vetro temperato, la resina. Preferisco uscire quando nessuno si aspetta di vedere la mia sagoma in decoro. Non me ne frega nulla dell’affaccendarsi canonico collezionista. E poi torno tra le onde, Positano. La spiaggia bianca.

Portami un po’ di sabbia, al rientro. Sì, ça va sans dire. Il punto forte della modalità pensante è che riesce efficacemente o illusoriamente a far scordare i tratteggi di un confine. Appoggio gli estremi del passepartout sul banco, m’incammino verso lo schermo e ripenso a far scorrere qualche lettera dell’alfabeto sullo schermo prima di far incominciare la corsa al brano. Ti dico che ti voglio bene meno silenziosamente, mi costringi. E’ un bell’obbligo, bel doverino. E poi, ogni tanto m’è capitato con personalità amiche, di discorrere a non finire di vita, esistenzialismo, stronzate altre, moltissime. Ma pensa se domani dipartissimo dal mondo, cosa resterebbe all’incoscienza? Tutto, mì. Però, come fa ripetere a tuono nella testa del suo piccolo protagonista1 l’autore Erri De Luca, mì, lo dico pure io a te: né paù.

Niente paura. L’uomo sa essere davvero infinito.

Tras-tevere, M. Titano, 2020. Fotografia a cura di © Alessandra Stanisteanu.

Una rubrica a cura di ©Alessandra Stanisteanu.

1Riferimento al personaggio presentato nell’opera Tu, mio (1998, 2012) – Erri De Luca.

VERITA’: LO SCORCIO SBIADITO DEL MOVIMENTO

QUANDO RIENTRI, TE LO RICORDI?

Rientro dalla passeggiata, oggi sbiadito. Gli acari aggrappati ai piumini, leggere brezze, batteri che salutano un vecchio e adulatore germofobico petulante, nuvole discostanti e generali. Distanti come sono io, per noi. Rientro, sbuffo lieve, non nascondo l’interdetto mezzo appoggio di metà idea, che fugge. Chiudo la porta della camera, è sera. A me non piace questo, gradisco quell’altro, preferisco la preferenza del non lo so. Cosa preferisco, esattamente? Appoggio la penna facendola scivolare lungo la pagina ingiallita dell’agenda, siffatta “agenda studenti”. Studente, stu-dente, s-dente, mi diverto sbiascicandoci. All’interno dei padiglioni auricolari, molto in fondo, le cellule ciliate innervate capillarmente vengono stimolate dal rumore della stanza estranea intorno a me, che a dir vero l’estraneità delle mura la percepisco quando realmente mi stringo in una sola parola. Una parola, ammaccata. La parola che molto posso affermare di poter volere per me: verità. Un sostantivo idilliaco, generativo, esemplificativo, che non esiste. Perentoriamente, si traduce – ma non morsica – e non induce. Non conduce a nessun prototipo di evenienza. La verità incongruentemente non esiste come dato di fatto, come morfologia, come eziologia: quelle sono conseguenze, logiche tessere d’indulgenza seghettate che si avvinghiano intorno alla sensazione di contrastante fragilità semplice che è data all’uomo come diritto d’essere tutto, fuorché verità.

Ogni tanto lo faccio risuonare, il pianoforte, come un eco lontano. A raccoglierlo sono i messaggi subliminali che veicolano la sinusite acuta in ottemperanza, priva di qualsiasi richiamo a soddisfare tutte le voci che attorno un fuoco dedicano all’individuo la gravità di quell’essere fuori e altro, da sé. Vorrebbero, dicono, stabiliscono, indulgono, consigliano. La televisione, una scatola cranica, scatola comica, che non tengo e dunque sostituisco con il bisbiglio di Brunori Sas. Ripensando alle piccole e affusolate realtà che riverentemente sento l’illusione di provare vergogna a confessare, La verità musicata dal cantautore mi impone di lasciar morbide le dita e di smettere di osservare la parabolica immaginativa della biro nera. Che colore, il nero. Oggi mi piace, domani no. Oggi mi piaci, domani no. Oggi mi piaccio, domani mai. La natura è splendida, e per quanto possa esistere uno studio ardito sulla prossemica delle catastrofi e dei miracoli, io ancora e a lungo, custodisco gelosamente due segreti. Il primo è che, il mio tempo in quanto artigianato d’opera, non mi va di buttarlo troppo in pasto alle strade dell’aria che sta esterna al corpo. Agli alberi, al cielo sconfinato, alla luce, alle indicazioni di un chiunque altro che si permette presuntuosamente di assumersi il possesso del vento che sfiocca sulle guance. A seguire ore di sole, di pioggia, di precipitazioni, scrosci, sento l’esigenza di ricompormi sui passi, per risolvermi in un luogo che non possa darmi l’occasione di deturpare la terra, per troppo tempo, con le mie scarpe. Le quattro mura. Il lasso temporale di permanenza fuori, si manterrebbe solo nel caso in cui i miei piedi fossero in grado di librare docilmente, nude, per l’erba che, per le leggi gravitazionali ossequi, non cede il suo nome alla mia identità. Prima o poi, ci dovrò fondermi senza essere egoisticamente invadente, penso. E qui, la verità si risolve tutta per intero in questo istante di intima coincidenza verbale, che non sento ancora di poter esporre ad alcuno. Avevo detto, due segreti. Il secondo è andato via con la penna.

La verità non è nell’appartenenza, è nel senso attribuitosi della stessa. Nella percezione e nel gioco solitario della scomodità, dell’inadeguatezza. A sentirsi inadeguati, mi dice Brunori, si finisce per scomparire. Ad esserlo meramente senza doverne cambiare i connotati per accontentare una sensazione che ha come prodotto finito il presupposto sulle bocche altrui, si finisce per andare sulla strada del vero, un attributo sintattico che ha come scopo, quello di non piacere egregiamente, ma di espellere. E quale miglior vero, se non quello che si sussurra in mezzo a una stanza? Accendo una candela, ed espello quello che si è intrufolato nel torace organico della frenesia vitale che ogni giorno ho la fortuna di poter raccontare. Riprendo a spostare gli occhi.

La verità è una delle poche canzoni che, al primo ascolto, mi ha fatto accorgere di essere anatomicamente dotato di un paio di occhi che funzionano per catarsi grazie a delle tendenziosissime ghiandole lacrimali. Non un gran numero, ma una di quelle cose da cui, dopo una notte occasionale, vuoi assolutamente fuggire. Onde a evitare quella romantica e affettuosa colazione a letto che è capitato di ricevere ma di cui si ha l’inabilità di percepirne il sottile velo della richiesta. Quella di rimanere a pranzo insieme. Per me, che mi dileguo e appeso resto solo intorno alle righe che ritengo di poter tracciare, la verità è una cosa che si confonde difficilmente oggi, e rapidamente domani. La verità è quando non si percepisce quel fastidioso ronzio del doversi esplicare in un motivo, in un momento, coagularsi in un perché. Quando qualche secondo di una staticità silente condivisa supera le tre ore di blableria adoperate con l’amico della circostanza. Che torto farebbe rassicurarsi di aver spazio per ognuna di quelle idee, astratte o progettuali, per i lunghi piani e le brevissime soste? E’ la verità, la parola preferita, che ricorda all’alterità di avere un diritto al momento e all’importanza della forma senza spigoli.

Chiudo l’agenda incompleta, l’abbozzo sconclusionato si dissolve, la penna riposa e concludo la raccolta delle verità che rimane sinonimo di ricerca, analisi e caparbietà, mai di risposta o dogma alcuno. Brunori si spegne, e nella stanza riaffiora piano quell’intransigente capriccio umano tipico di chi si spoglia senza professione, cedendo alla nudità del corpo la verità della contraddittorietà. Lascio così trascorrere un altro paio di mesi, in modo tale da ravvivare l’incontro nell’istante in cui pensato ormai dimenticato dentro alle pieghe del garbuglio esperienziale.

Pieghe a Ritorno, Mantova, aprile 2021. Fotografia a cura di ©Alessandra Stanisteanu.

Una rubrica a cura di ©Alessandra Stanisteanu.

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