D’AMORE CHE NON PARLA D’AMORE

ISTITUZIONE DI UN BLUES DA NUDITA’

La camera è una planimetria a suoni cavi, dolci. Indosso un gambaletto buono, indumenti caldi, aderenti. Seggo a lato del divano, cingo fra le dita il gambo di un calice. Il giradischi favorisce Seven, a seguire Hard to Let Go, dei Men I Trust. I Hope to Be Around, lascio le palpebre poggiarsi sugli occhi, li chiudo. Assaporo il tutto, sono sereno. Un tacco si sfila dalla punta di un piede. Muovo lentamente a penzoloni, con una gamba inscarpata e l’altra sglabra, nuda. First Come, First Served, passo al Jazz un po’ blue, romantico, decantato, come è sempre piaciuto a me. Sono al centro del Saloon, e mi guarda. E mi fa scordar gli anni, poichè ne abbiam vissuti molti appresso gomito, a gomito e animo ad animo. Il pianoforte s’incrina. Hard to Let Go riparte, è la melodia del mio soggiorno, l’atrio del mio intimo secondo. Con gli occhi sempre chiusi, abbocco un sorso e mi dico: sì. Sì, è buona la vita, è pacifica, mi sento. Mi sento, di nuovo. Mi vedo, ancora. Canticchio. Sono appena rientrata da Verona, aggiorno il portfolio. Giacca in pelle sintetica, nera. Il capello così gonfio, me lo sentivo solo mesi fa. Pelle linda. Ossigenato, è, l’organo cerebrale che mi permette di abitar-mi nella prossimità del vero, del séntito. Ancora. Finalmente, non mi t’indossi sopra, più. Mi sono tenuta un ultimo frammento mio, in custodia. E l’ho fatto rifiorire. Sorrido. Penso a quanto sia bello il giradischi. Lauren, un altro pezzo dei MIT. E’ sera, qualche giorno prima, intorno allo stesso orario, ho incontrato L., al parcheggio. L. è recente, ci conosciamo da poco, e le nostre strade si sono incrociate previa intervento di terzi. Ci unisce qualche passione, pensavamo così. Siamo dentro ad una mappa quantica: ci muoviam eppure. Viandanti amici.

Ci imparchiamo dentro le rispettive automobili. Uno cede all’auto dell’altro. Voglio esser conciso: parlicchiamo, ci sfioriamo le ferite, e nella mia confesso di aver smesso di cantare. L. incalza e dice che potrei, cantare. E io – dapprima in imbarazzo e poi in rilascio, – solfeggio su Lauren. E poi canto Tailwhip. E poi Smother, dei Daughter. Un brano a me inedito, che non avevo mai toccato con le corde canore prima di allora. Nemmeno quando improvvisavo in pub. E lì le faccio vibrare. L. si dice in meraviglia. Allora io m’emoziono, e per poco non cedo. Poi mi trattengo, sfarzo l’aria con dell’ironia da due danari. Rido, e piango. E mi riconosce che son io. L’io-nell’altro-da-me. M’appendo alla portiera e i polmoni sono esageratamente caldi, anche se fuori fanno due gradi. Dice: “Adesso ho capito, perchè quando parlano di te, dicono che sei libera”. Si riferisce al foglietto con il petalo di rosa essiccato.

Non si è assolutisticamente e presuntosamente liberi, ma ci si può abbracciare dolcemente, ogni giorno, per esserlo. E ci si può litigare, con sè stessi. Il dubbio, è la riforma. La riforma del sincéro.

Il mio sonno è qualitativamente migliorato. Mi alzo di mattino, presto. Mi preparo il caffè. Il mio corpo si riposa. Eppur si muove! Esisto, senza dover desistere, e non è poi impresa poco screziante. Per la maggior parte del tempo indosso gl’occhiali da vista e mi raccolgo i capellacci. Quando m’assorbo nelle tonalità melodiche li sciolgo. Sciolgo il costato sulle note di Days go By. Dipingo, e mi infradicio le mani. Dipingo. Pennellata. Arminio. Pennellata. Emme. Pennellata. Lei. Pennellata. Io. Pennellata. Inguaribile statuto. Pennellata. Incoscienza altrui. Pennellata. Terapia. Pennellata.

Cecchettin.

Pennellata.

Giulia Cecchettin.

Pennellata.

d’Arco.

Pennellata.

Abuso.

Pennellata.

Ahia.

Pennellata.

Giulia Cecchettin.

Pennellata.

Turetta.

Pennellata.

Gino.

Pennellata.

Giulia.

Pennellata.

Io.

Pennellata. Pennellata. Pennellata.

Quanti amori che non son amori.

Pennellata.

Pennellata.

Pennellata.

Guardo la tela. Il mio giradischi va ancora.

Dòlce, libera, Giulia.

Pennellata.

Trappola.

Pennellata.

Intercettazione audio vocale mandato da Giulia a un’amica: “Non lo sopporto più. Vorrei sparire dalla sua vita, ma mi fa sentire in colpa“. Però, così ferito. Così egoico. Così dispiaciuto. Una premura da due soldi come la mia ironia di qualche giorno fa. Nessuno che abbia visto, lui nemmeno si vèdeva.

Pennellata.

Giulia! Vattene,

Pennellata.

Fa nulla.

Pennellata.

Non fa nulla. Che finzione. Promotori di giustizia, fagocitatori, trasformisti d’amore, bugiardi.

Pennellata.

Sì che fa.

Pennellata.

Yolandi, di Skioffi. L’ennesima collana, gli ennesimi regali. Che ingratitudine a non divenir schiavi dell’obbligo sottile.

Pennellata.

M’appoggio al cavalletto. E’ lì. Io son lì. M’educo. Il telo a pie’ del cavalletto è imbrattato di colori. Son felice, amòre, sai perchè? Perchè scavo, e quando m’immergo, m’avvicino a comprendere. Come voglio l’amore.

Ultima pennellata.

Arrivederci, donna in divenire, dottor ingegnere Giulia. Non sarà mica dunque che, la prevenzione conoscitiva avrebbe potuto mutar deviando la trasposizione vettoriale degli eventi?

Alla mia bambina, al mio bambino. Che società fanatica. Che corsa, che affanno. L’epidemia dell’egocentrismo, della fàrsa. Della proiezione, della competizione, dell’essere umano meccanizzato. Che apparenza. Quanta pretesa, quanta superficialità e quanto pegno. Cosa rimane, di genuino, di nudo? La mia gamba senza tacco. Che menzogna. Quanta associazione erronea, a questo povero amore. Donne, uomini, incongruenti e irrisolti, che non amano e predican d’amare. Menti che s’intrecciano senza il rispetto al diritto alla vita. Corpi che blaterano la lingua dell’incuranza, assenti di profondità di campo. Che immensa malinconia, da noia.

Che noia, una vita così. Che noia un amore impalcato che non parla d’amore. Quanta noia che mi fa dolore. Elargisco un sorriso, torrido, e la musica continua ad andare.

Penso così. Guarda che la musica non s’arresta. Lo spartito fa comunque il suo.

Eppure, che noia, una vita senza vita.

Una narrazione a cura di © M. A. S.

Mamma Papera, un disegno di Giulia Cecchettin.

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