OL-TRE VÉDUTA

INNAMORAR-MI ESISTO

Venerdì pomeriggio, il navigatore sceglie di farmi fare un tragitto insolito, che ricopre ben due ore e cinquantasette del tempo da sottrarre, o aggiungere, alla vita medio-bassa. É un viaggio di andata, quello che m’attende a ripercorrer folate di ventre a cassa toracica prestante, che somiglia all’itinere in ritorno, il nostalgico caposaldo della dis-familiarità notturna. Al ritorno ho spesso seguito tornanti e curve cieche con l’accompagnamento di qualche minuto riflesso lunare, sulle scariche turbinee dell’acqua lacustre. Ora, all’andata, verso-itinere, il lago lo vedo scorrer a più scale piane con la lucidità visiva di un soggetto che – senza un faro funzionante – s’accorge di svolazzare con la vista decimata per difetto. Mentre le nuances dell’ingorgo acqueo diffondono e trasalgono all’incrinare delle mie sterzate al volante, i pensieri risalgono alla camera cerebro-associativa superiore come fossero zampillanti echi proliferanti, e io soccombo con morbidezza rinnovata ad ogni virgola intrusiva, mai invasore. Picchietto con l’indice, salvo sterzo, car confort, note musicali. Solfeggio silenziosa: fa fa la do, si. ctctct, gioco con i denti, gioco con l’arcata, gioco con l’estensione mandibolare, gioco. Ct, ct, ct. Tc, fc, fc, tc. Mi domando, porgendomi elicitanti dubbi fanfareschi: e se questa fosse la mia ultima guida, con la consapevolezza in tasca – è la mia ultima guida! – guiderei così? Piego la suola sull’accelleratore. Ct, ct, ct, spengo gli occhi, pur da aperti. Non c’è nessuno, in quell’istante, sul tratto stradale. Non c’è nessuno, all’ora, affianco al sedile del pilota, e nemmeno nei posti dietro. Esclamo e se, e se, questa fossa la mia ultima guida, e se, e se, e se, c’avevano la ragione tutti gl’altri. E se, e se, chi sono se non quel che sono, what I am, is what I am, and what I long not to ever be. Ct, Ct, sol fa do. La vita in quel preciso attimo la sento in bocca sulla punta della lingua, è crespa e sa di tutte le cose che mi piacciono. Intenerisco il piede sull’acceleratore che da un centinaio va verso i settanta, cambio marcia. La vita è una cosa che nemmeno si sa d’essere, quante rifrangenze che mi ci scompongo da sorpresa. La vita, mi piace per questo.

Lei mi accoglie a ridosso del cancello, sorride imbambolata, le intravedo quasi l’ugola, il palato, spalanca l’orifizio vocale, le palpebre non esiston più e divarica le braccia. Brancola allegra, emette versi infantili carichi di euforia.

”Vieni qui, bellissima che bella! Eccoti! Iubirea sufletului meu.”

si getta non appena appoggio le gambe a terra e apro la portiera. Ho i capelli molto mossi, questa sera, e quasi appaiono ricci. Come i suoi. La faccio affondare nel mio abbraccio, e penso ‘ecco cosa è una stretta reale’. Nessuna complicanza, la faccio sprofondare come si buttasse in mare, le sussurro di immergersi fra le mie costole. Mi piacerebbe dirle: abitami quanto vuoi, t’amo oltre veduta. Le dico Te iubesc senza nemmeno necessitare il tatto, la chiamo per nome. I capelli ci s’immischiano e il suo profumo cede al mio. Da quando ho deciso di dedicarmi più zelantemente alle capillarità olfattive su spettro, mi sono fatta prender per mano nella caduta in passione per gli odori. Ne riconosco di diversi, e ne combino di altri. Il corpo è mutevole, o algoritmico, ma servile e il mio da sempre è camaleontico. Quanto è piccola, dentro la mia giacca, questa Donna così distantemente prossima, a me. Lui ci passeggia intorno, è imbarazzato. Mi divincolo un poco dall’abbraccio, gli sfioro la mano chiusa, con un’indice. Respira più leggero, e quando alzo gli occhi per vederlo, mi sorride e le guance gli s’avvampano come quando aveva quindici anni, nella vecchia foto d’album di famiglia.

Tassonomia della giunta, tachimetria dell’ordigno. Fletto il collo e metto in motore l’osservazione leggera, fiato su ogni tassello di casa. È così, così cosicché, variabile alle mie letture percettive. I quadri son lì, i poggioli di là, la poltrona a diagonale, lo sportello del forno mezzo schiuso, il tappeto cesellato. Lei mi chiede:

”Allora? Dai!”

Sfodero dalla borsa una rivista traslucida, in primo piano v’è una mia fotografia in bianco e nero, con alcune parole da curriculum portfolio. Legge in inglese, ha la sua bella pronuncia di qualche anno fa, poi esclama verso di Lui: “Guarda che qui sembra me!”, mi stringe la mano mentre scansiona scrupolosamente il ritratto che mi raffigura in penombra.

”Allora di me non c’è più nulla.”, mormora lui, divertito.

”Nulla nulla, niente di niente! Non più.”, Lei gli fa una carezza celere, non ha tempo per soffermarsi sulle sottoparafrasi del compagno, espone le pagine aperte sulla scaffalatura del salotto, lo fa con le dita franche, ma riverenti, di cui lingua si fa cura. “Ecco, ecco. Mi piace molto. Mi piaci molto. Mi piaci moltissimo, più di ogni altro fotografo, artista eccetera quel che vuoi tu, tu sei”, è stravagante ma sincera. La invito a sedersi a bordo del divano, e la affianco.

”Fammi vedere le nocche.” incalzo, la guardo diritto negli occhi. Non voglio perdermi nulla, alcuna variazione nistagmica, sua. Nessun epitaffio, nessun corollario cromatico. È fondamentale per me guardarla in quel modo.

”Cosa le nocche?”, mi porge i polsi.

Mi rivolgo in narrativa madre, mi sento imprecisa. Prendo le mie, le mostro le nocche: “Queste sono le nocche. Fammi vedere prima le nocche.”, modulo la voce e le chiedo il permesso. Non c’è un solo giorno della mia vita, in cui io abbia mancato di chiederLe il permesso. Ciò di cui mi rende partecipe è un movimento di animo, e nemmeno lo sa. Io chiedo permesso. Lui si siede al tavolo, si riempie un bicchiere di Coca Cola.

”Ah!” esordisce. Mi dona le nocche. Eccole, penso. Eccoti, pure tu. Più di dodici piegature laminari, sulle nocche. Su quante ci posso camminare senza nemmeno sfiorarle, su quante voglio plànare. Una due, tre, dodici. Più di dodici. Conto le mie, ci siamo. Mi squadra, in attesa. Possiede sotto le alture palpebrali iridi che sanno di terra appena nata. È lì, anche lì – mi dico – che io voglio far nascere i gelsomini più forti del mondo.

“Io vado a dormire, mi ritiro”, annuncia, Lui.

“Dormi.”, lei ci è abituata, resta con se stessa quando Lui dorme. Resta con me, questa sera.

S’incammina verso la camera da letto e si sentono scomporsi le lenzuola e il piumino invernale, di poco. Il gatto lo insegue e, miagolando, saltella sul giaciglio dei sogni irriconosciuti, a lungo. Io scambio due parole con Lei, poi raggiungo la loro camera. Il felino fusacchia mentre lui lo accarezza, sembra un cinema a sipario scoperto senza tempi di ripresa. Mi siedo vicino a lui, gli cingo il polso con dolcezza. Lui non comprende, ma lascia fare. Dice: “Non mi sto affezionando, ma questa gatta è speciale a modo suo, poi è illegibile a chi non ha Bene. Come te.”, non impiega il termine “illeggibile”, Lui riformula “è molto che non si legge”. Va bene, bisbiglio. Gli accarezzo con le punte delle dita il polso. S’intravede il tatuaggio. Disegno cerchi, sul maori. Più l’accarezza, più la ama. Se solo avesse imparato a farlo dapprima. Ma, non posso proprio farne a meno: a chi importa che non l’abbia appreso. Mi dico: guarda. Lo vedi? Un uomo insipidito, che ama come fa un bambino inacerbato, ma leale. Mi fermo un attimo. Azzero la frase. Un bambino che accarezza davvero. Un bambino che impara ad amare. È tutto quello che mi basta.

Non prendo sonno, ma sono così innamorata che potrei scoppiare. Mi sono innamorata! E quante volte m’innamoro. Non riesco a resistere. Non me ne capacito. M’innamoro. Oggi sono caduta in picchiata, atterrata così flebile, vaporea, etereo amore, mio e di tutti. Uomini, donne, inflessioni, parentele, musicalità, cerchie, innamorato. Domani sarò in un’altra abitazione, dalle altrui pareti, altre nuvole disegnate, sussurro. M’innamorerò di nuovo. E dopo domani, in un’altra ancora. E m’innamorerò di nuovo. E dopo ancora, nella mia, per il tempo concessomi. E m’innamorerò ancora.

Rientro poco fa, il motore caldo senza AC on appanna d’aria nubea gli incastri dell’automobile. Mi spoglio, vado a farmi un bagno. Entro in vasca, accendo le candele. Fumo una sigaretta. Trattenendola a pelo dell’acqua, m’immergo a puntate intermittenti con il capo, con il torace, le gambe dolci. Trattengo il fiato e le orecchie attutiscono le onde sonoree. Emergo. Aspiro un altro tiro, rilascio. Reclino la testa all’indietro. Il manto d’acqua è come seta sul mio ventre, e gli ovali di sapone accerchiano le ginocchia, e il busto. Quando m’asciugo, ho voglia di far scorrere le mie impronte.

È così. E io pensavo molto, e penso poco, e penso sempre, e penso nulla. Volteggio senza meta, voglio star sospesa per trachea. A me non importa se non di tutto quel che è pieno, anche piccino, di significato. Anche l’assenza, lo è. Anche il niente, lo è. Guarda, amore, che io ho capito – e con una punta di sana insolenza, m’aggiro senza intento di raggiro – che io sono innamorata di tutto quel che concepisco. Persino, l’inconcepibile, che ha sempre a che fare con l’antitesi nell’orlo. A ogni colpo, il suo contrario, ad ogni assolo, il suo dissolto. Non esiste mica presupposto. Mi sono proprio innamorata e adesso te lo dico.

Mi sono innamorata, da morire dell’incompatibile coesistenza nella vita, anche in tutto quello che si cela, anche in tutto quello che non è. E dunque, che ne pensi? Ti dirò che a me non frega poi del resto, sai.

Perché mi sono innamorata di chiunque, di qualunque, di cosassia. Degli infiniti passi, delle sagaci scie. La vita, adesso, la sento in bocca sulla punta della lingua, è crespa e sa di tutte le cose che mi piacciono.

Mi sono innamorata, da morire. Ed è per questo, che a me, anche di affacciarmi sull’invisibile ciglione, mi va proprio – proprio- sempre.

una narrazione di vita a cura di M.A.S.

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