ANELITO ANESTESIA

Son giorni, giorni, giorni, che mi premuro d’ascoltare ininterrottamente i brani di Birdy. Ovunque. Per le vie, in automobile, in bagno, in soggiorno, sottoscala, al parco comunale, nei parcheggi e nelle zone di sosta in cui mi fermo. Rammento di quando al terzo liceo l’ascoltai per la prima volta, e fu esattamente ciò di cui necessitavo per créscere. Pur senza proposizione. Stasera sono con A., allora mi discosto e chiedo gentilmente del tempo per appuntare sullo schermo quello che abbiam eviscerato assieme. Comprende. In questo momento si occupa di attendere sulla sinistra senza intromissioni. Non è di rara usanza, che io abbia necessità di decomprimere. Faccio scorrere gli indici e i medi, assieme ai pollici. Mi trovo a dire: “Oggi ho preso visione di due interviste propagate, del cui protagonista Crepet. Ha dialogato sulle impronte di concettualismi quali sentimento, rispetto, emozione, anestesia“. A. ha il volto avvampato dal freddo e gli occhi accesi, le orecchie appagate da un berretto di lana. Mi offre una sigaretta, e mi lascia ruota libera.

Oggi riflétto e trascrivo, allora l’itinerario è definito e molte componenti oggettuali le sintetizzo sullo schermo di un’epopea al virtualismo che scarnificato, è prolungamento transitorio di motore identitario. Insomma. Sono chirurgicamente attinente al virgolettato anche qui. Ho il portatile, un Chromebook che acquistai qualche anno fa in vista degli esordi universitari con l’intento di promulgarmi l’aderenza all’espletamento coniugale didattico. Un diverbio con me stes(s)o. Affermo: “L’equazione è quella e pare ci si riversi ad un punto di confine, dove agenti polarizzati si fanno eco in una lotta alla disseminazione di pragmatica di genere e significante d’oltranza valoriale. Ma non è quello” – A. guarda, e dice che l’insieme di società è agli opposti, e le differenze, le propulsioni F/M, nozioni inforcate – allora rimarco: “Vero sì se si considera la soluzione antipodale come esigenza iscritta all’attribuzione realitativa. Io penso” mi fermo, respiro. Ripeto Io penso, a puntate intermittenti, almeno cinque o sei volte. Io penso, penso penso penso, cosa penso? Penso che ad aver corredo retorico pur privandomi dell’espressione corredale, ci rimango sospesa e. E, l’equazione. Cosa vuol dire. Cosa vuol dire non aver da dir, dicendo.

L’equazione è questa, così penso. I punti d’appiglio e i frangenti prospettici sono infiniti, se vogliamo, e pluriquantificabili, multimodali e – paradossalmente – dividenti, ma il fattoriale decisionale in quanto minimo comun denominatore per me resta uno: si è di fronte ad un epidemia estensiva di vuoto. Eppur il moto, le opportunità e le nuove invenzioni artificiali che il partoribile cerebrale costruisce intorno alla vita, son tanti attributi convessi che rivelano sostanzialmente uno studio di funzione privo di limite ascrivibile. Un’epidemia di vacante assenza, di mancanza, di incoscienza. E la cosa che stravolge il perno sostantivamente è la suddetta: in tutta questa corsa, allorché, piena d’obbiettivi circoscritti e rifornimenti consigliati, modalità esacerbate e propagande al culto dell’affaccendamento, ci si dimentica d’esser umani. L’umano pénsa, ma per farlo necessita di tempo. Si ingarbuglia, ma non gli è più consentito. Si deprime, soffre, acquisisce, ma non gli è più qualificato. Non c’è tempo per queste stronzate, e allora si comprima per riempire. E se prima ci si deprimeva, ora ci s’impalca: lo esigono le norme subliminali della corsa alla validità apparente: il metro di giudizio, il parametro, la qualifica, la nomina. E la sostanza esacerbata perde il suo sapore. L’uomo si automeccanicizza dentro un processo fortuito talmente impercettibile, dove le redini del suo senso non sono più le valutazioni sull’assenza del caso angusto del vuoto significante, ma le radici del primarismo rappresentativo. Alzati, spingi, prefissati degli scopi, prevaricali, combatti, vinci, annuisci, muoviti, fai sport, bevi infusi, prendi pasticche, attenzione al corpo, attenzione al tempo, attenzione alle tecniche di computazione meccanica, attenzione alla nomea, attenzione al ruolo, attenzione all’aspettativa, attenzione alla vittoria, al traguardo, al guadagno, alla velocità, alla scalata, ai vizi, alle mode, all’efficienza, all’ottimizzazione, al metodo Pomodoro. Va bene, dico. Ma non va bene un granché. Con il minimalismo alla competizione e all’assunzione di rappresentatività, un essere umano qualsiasi dove lo trova il tempo per esser-si, per riflettere? Quantomeno, s’ingegna. Ma non riflette. E l’ingegno, solo, non porta a null’orchè di prossimo alla restituzione di un dialogo interiorizzato e interdipendente sincéro. Automi partecipanti alla spettacolarizzazione della fame. Fame di niente, nella più recondita delle realtà. Allora si faccia un piccola trasposizione. Quando si discorre di rappresentatività, si converga alla rappresentazione di un qualsiasi concetto, costrutto o definizione. Ad oggi, si vive poco e nulla. Ci si rappresenta nella, e alla vita, ma non si vive. E se negli anni duemila, ad accenno, ci si poteva prendere il tempo di cadere in depressione, ora – per induzione nominativa – si reagisce non con lo stato depressivo ma con la tendenza narco-egoica. Quello che condividono, queste due strutture reattive psicopatologiche, è la stessa problematica di base: l’assenza emotiva, l’inadeguatezza, il rifiuto, l’improbabilità di esistere in maniera veritiera all’interno di una desunta richiesta di rappresentatività. La prima, ti colpisce dentro, e ti fa arretrare. La seconda, colpisce fuori, logorandoti dentro, e ti fa illusoriamente avanzare. L’Ego narciso non si ama, soffre, si detesta. Ma, per difendersi, si rigetta all’esterno propagandando una versione sur-reale dell’idealismo atteso, costantemente soggetto di parametrica validificativa. E ci si cade, in quel gioco di finzione. Si può spingere, calpestare, non rendendosi conto che falsamente accaparrando, frammento per frammento, ci si decostruisce. Ma a chi importa, se nell’atteso si appare…bravi.

Se si vive poco e nulla, ci si immagini come si ama. Purtroppo, poco e nulla. Ci si può amare nella rappresentatività del concetto d’amore, e allora lì – me ne dispiaccio – non si ama. E’ l’amalgamato esteso, un prolungamento, all’aspettativa nominativa, nozionistica, di un qualche dilemma sociale che non fa altro che insegnare che l’amore si abita in due, tre, quattro assuntini di banale associazione promozionale – per intendersi se fai questo, io faccio quello. E’ sempre stato intorno che questo significa questo, e quell’altro no. Amore sano e amore tossico. Quali amori sani, quali amori tossici. Esiste l’amore, e il vuoto d’amore. Crepet ribadisce “anestesia emotiva“, concetto che ho abbracciato in maniera peculiare. Nell’intervista proferisce: l’amore è una dimensione emotiva, primariamente. In quanto tale, ci sono le emozioni, e le emozioni si muovono intorno al rispetto. Il rispetto è fondamentale, per l’amore. Come si può pretendere di vivere, amare, senza la tutela al diritto alla vita altrui, senza la coscienza, senza l’educazione alla consapevolezza, senza l’evoluzione sanificante, senza il rispetto all’identità? E, se si parla di rappresentatività, il problema all’osso potrebbe esser che, ancor prima d’amare, ancor prima di vivere, automi umani quali ora mancano di una struttura d’identità intrecciata al consenso. Un refuso morfologico d’animo. Mi appoggio sul sedile e affianco A., dico:

“Come è possibile che tutti si sappiano o vogliano rappresentarsi di vivere, rappresentarsi d’amare, se non vivono. Se non amano.”

A. mormora: “A nessuno interessa. Semplicemente, rigetta o riempie. Purtroppo.”

Non è sempre così. L’essere umano in quanto umano può vivere, può amare. Ma finché ci si rappresenta alle concettualità di vita e amore, alle parole, alle aspettative, ci si dimentica appieno di vivere, di amare. E ci si sfama, poi si passa ad altro. Ci si disseta, poi si passa ad altro. L’inguaribilità dell’apparenza. L’anestesia emotiva. La cortesia vacua, la gentilezza performativa. Il senso di inferiorità e le dimensioni di vissuto mai rielaborate, mai comprese, mai riscritte. Non è nichilismo, dico, è transigenza blanda, ma mai rassegnazione. E’ un invito a riflettere, a volersi bene.

Ascoltiamo assieme People Help The People. Sì, che l’amore non inganna. L’amore, vive. E la vita – la vita, è quando stai sul ciglio della strada e ti vien da ridere, perchè è disdicevolmente assordante che faccia così tanto freddo, ma dentro di te tu ti senta così caldo. Lì, hai capito che vivi.

Una narrazione di vita a cura di © M.A.S.

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