VARIABILI NEL MARGINE D’ERRORE

LA PROPEDEUTICITA’ DELL’EFFETTO FARFALLA IN UN SISTEMA DIS-FISICO

Le vigne sono basse e il sole alto, spengo per qualche minuto il telefono cellulare. Non mi resta nulla, resto sospesa. La macchina è a ridosso di un piazzale di sosta incastonato fra la montagna e il ciglio di un burrone recintato. Esco dall’automobile, lascio la portella aperta facendo trapelare l’afa che, insinuandosi astuta, mi restituisce il valore del calore. Ho i capelli in disordine, il viso gonfio, il corpo fragile e la testa di un peso irriverente considerati i parametri aggiornati della fisica anatomica. Passeggio sulla ghiaia, i tacchi fanno un rumore sgradevole che disconosco, pertanto li sfilo dai piedi e li appoggio ai piedi del sedile retrolaterale di sinistra. Mi divincolo dalle calze, le piante rimangono spoglie e scavalco la recinzione. Intorno non c’è un’anima mondana e nemmeno voci che dialogano. Gli steli d’erba sottostanti sfregano contro i talloni e inizio a correre veloce, buttando le chiavi dell’automobile a terra. Avanzo di qualche centinaio di metri e inizio a gridare, gridare, gridare. Le onomatopee cacofoniche si disperdono nell’aria, finalmente. Gli occhi si chiudono, si aprono, si serrano, si schiudono e elicitano un pianto che non è nel controllo cosciente delle cerebralità autoregolatrici. Tutto sfoca in secondo piano e il diaframma della fotocamera del torace non tace, permettendo al punto focale di andare per processo di disfunzione incerta. Dalle labbra rilascio una pellicola lunghissima espirata, scaduta e promettente, che attorciglia lungo i frammenti in negativo tutti gli episodi edaci ingurgitati con fame di sopravvivenza. Quando le gambe mi portano lungo la navata erbacea dello spiazzo esteso, mi lascio cadere sul prato e ci resto per alcuni minuti che m’appaiono interminabili. Penso lì, che se mi fosse facilmente possibile, scorticherei la pelle per buttarla via e rimanere con l’interno corporeo esposto alla metilazione metamorfica lunare. Il sole va, e lascia posto alla sua controfigura, come io lascio posto alla mia. Una farfalla dalle ali piccine si poggia sul fianco destro e non riesco a parlarle, poichè mi fronteggia in una maniera talmente labile e appena percettibile che non posso far altro che farla zampettare lungo il braccio e risalire sopra il collo. Dentro di me – le palpebre abbassate – dico: perché non se ne va, la farfalla?

Lei si fa strada lungo il mento e si trascina sulla bocca, provocandomi solletico. La lascio fare. L’erba è calda e il busto si fa carico di un torpore piacevole, ma irriconoscente. Innesco un conto alla rovescia: dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro – voglio contare i frammenti temporali con un’unità di misura classicistica per dare una nomina alla scelta dell’insetto di vivere il proprio mondo di sensorialità su un corpo come il mio – tre, due, uno. Zero. Dispiego una palpebra, la retina si ammorbidisce: la farfalla è sul mio naso. Le replico a voce modulata Vattene. Lei non si smuove, fa ballare un poco le alette. Ripropongo, con più tenerezza: Te ne puoi andare? Non c’è verso, lei decide che quello è il posto in cui vuol sostare e si fa gli affaracci suoi. Non ci voglio romanzare un dialogo, penso, proprio non mi va. Resto in silenzio, inspiro, espiro, c’è una luna bianca segmentata a metà. Mi sposto, da un lato. La farfalla si libra in volo, e mi svolazza intorno ai capelli per poi andarsene, senza voltarsi. Non mi volto. L’indomani, non rammenterò nulla, confermo.

Altri cinque minuti m’appoggio alla terra, desiderando di fondermici, l’abbraccio a testa in giù. Farfuglio qualcosa incurante, poi mi sollevo. Inizia a spirare il vento. Paul Valéry recitava nel suo Cimitero Marino: “Si alza il vento, bisogna tentare di vivere“. Mi guardo i pantaloni, sono sporchi di terriccio. Le mani intrise, i gomiti lacerati dal tonfo. Corro lesta verso l’automobile, scavalco il recinto, le chiavi sono ancora a terra nell’esatto punto in cui le ho lasciate andare. Le spighe ondeggiano, risalgo in macchina e accendo il motore. Guidando, guardo a destra sullo specchietto: la farfalla è lì. Sorrido e le sussurro: Puoi restare. Le chiedo scusa. A diffusore, la musica è bassa. I capelli sono denaturati, cingo l’elastico, lo immobilizzo stringendolo con i denti, e mi raccolgo il crine con un paio di movimenti arcuati. Mentre vado, richiudo gli occhi per qualche istante. Quando li riapro, mi ritrovo all’imbocco di un sottopassaggio dove le mura si stringono e ingoiano la mia ombra che si dissolve, sicura.

La farfalla sceglierà un altro ambiente dove detergere il suo volo. Io, nitida pur dematerializzata, a piedi glabri indosso nuovamente i tacchi e piego sull’acceleratore.

Una narrazione a cura di © M. A. STANISTEANU.

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