UN’IPOTESI COMPOSITA
Accade questo: stretta, a-specificatamente anacronistica, la voglia di argomentare occhieggiando alla fotocamera di quello che è, probabilmente, quello che vedo io, quello che vedi tu. Sguardi fugaci, così si articola un rapporto intimo all’interno di una camera. Steso, indigente e fuori da ogni parametro e presupposto congiunto, qualsivoglia appreso, conosciuto dagli altri. Ci si prova, ci provo, dico. Nonostante io sia nell’altro. Nonostante io sia l’altro. Le braccia accompagnano, il torace si muove, il petto segue la pancia in un respiro costante diaframmatico, l’ambivalenza concorre e per un solo brevissimo inconcepibilmente rapido istante, la vedo: è la smania di parlare dell’emozione sentimentale da cui tanto mi discosto, come fossi in un luogo affollato laddove volti e disforie s’incontrano senza però raccogliersi. Chiaro, allora, inizio a non voler discernere e finisco per scavare intorno all’innominato sostantivo idilliaco del sentimento affettivo una sorta di fossa concava dagli spazi accoglienti. A fine scavo, mi c’affaccio. Tutt’apposto, mi viene da infierire. E’ un sentimento.
Che poi, l’affetto, l’attaccamento, la prossimità familiare con qualcuno, la sentimentalità dell’amore, ho sentito più volte dire fosse “la cosa più potente dell’universo”. Lo si esplica nella mediazione post-conflittuale, nella promozione al benessere, alla pace, al raccoglimento, all’eguaglianza, alla parità. Cosa muove l’accezione dell’azione mai protopatica, sintattica, del bene? L’ a-mors. Non per volta, a caso. Per chi è poco romantico o diffidente e quasi accorto, più sentimentale di quel che si ritiene e dotato di una sorta di sensibilità di cui medesimo si spaventa, l’amore è una scopata. O una scopata è una scopata, e basta. Ci si ritiene più sinceri a parlare con se stessi con determinati attributi o nominativi scelti. Quello della scopata che rimane scopata, è un caso anche personale.
A-mors è grande e, senza troppi giri di parole, è inquantificabilmente inesprimibile. Non si potrebbe accostarlo alla veridicità con cui l’occhio comune identifica e incamera un significato, come quello, a una parola che si traduce in immagini stereotipate di coppie che per affusioni si stringono la mano, si accarezzano, si vogliono bene lì, in due. Dimenticandosi che restan loro. Uno, e uno. A-mors funzionerebbe lieve diversamente. Sono ai bordi della scrivania, le iridi rincorrono il trattino sulla pagina. Mi giro dalla parte del telefono e penso a quanto possa essere di ergonomia un ventilatore che batte dietro la faccia. Dove sta il capello.
E allora lo dico, dai. Con chi mi litigo? Con l’espressività del sentimento d’amore. Per poco, riesco a interiorizzarne un nuovo diversivo, un senso che preferisco accostargli da sempre: “la cosa più potente dell’universo”, come diresti tu. Non perché rimanga unilateralmente un sentimento che muove l’altro a me, o me agli altri, o gli altri all’altro. Non perché provandolo ci si cambi d’abito solo in-amore, nell‘amore, nella relazione, nel connubio io-te, nella pluralità del noi. Non perché invogli a trasformarsi per e con l’altro, non perché conduca a costruire, progettare, contro la realtà del tempo. Altresì, non la cosa più potente dell’universo. A-mors è, però, il sentimento più forte in fatto di opportunità e potenzialità capacitativa. E’ la cosa più forte, forse, della realtà emozionale umana. Io non penso di essere chiaro, quando ci parlo. Tambureggio con l’indice sulla planimetria della tastiera. Il ventilatore fa il suo mestiere.
A-mo-re è psicofisiologicamente un aggregato di rilascio e contrappasso ormonale, un processo metamorfologico e trasformativo che – rimango cauto nel digitare – trova la sua decantata meraviglia e potenzialità nella sua abilità di rendere dell’uomo, un uomo dis-naturale. “Sapiens”, potresti dire tu. Va bene anche così. Com’è che una roba come l’uomo, diventi dis-naturale, non naturale? Nella primordialità storica la natura istruiva l’uomo all’adattamento predatore. L’uomo predatore, o l’uomo solipsista senza saper di esserlo. L’uomo naturale era quello elaborato alla sopravvivenza. Poi c’è stata di mezzo la progressiva civilizzazione, il contatto, quel continuo tintinnio di campane la domenica, l’aggiunta, l’abbondanza, la complessità crescente della volontà di attribuzione del senso, tentativi di aggrapparsi, di toccare, di sentire. L’urbanizzazione. Il restauro dell’emozione. Così allora vien da dire che è tutto merito di a-mors, a fatti espliciti. A-mo-re di curiosità, di detersione, di espansione, che guiderebbe l’essere umano per secoli a spingersi al di là della sua programmazione evoluzionistica naturale: un progresso evoluzionistico contro-natura, contro l’aggressività dell’appartenenza sopravvivente della preistoricità. Ci provo, lo ripeto. Questo è amore forte, quello che stravolge uno pseudo-patrimonio corredale genetico. Un nuovo motore, un’altra matrice.
Gioco con le gambe, lievi colpetti attutiscono l’aria proveniente dal ventilatore. L’aggressività umana è un abbraccio difficile, e l’amore è un senso che l’abbraccio acquista da un ometto dubbioso a buon mercato. Il romanticismo è quello che riesce ad insinuarsi per indurre alla metamorfosi. Mi restano pochi soldi in bocca. Domani vado in posta, si sa, la bolletta di chiusura. La comunità. L’integrazione. Rimane bello anche così. L’aperitivo in centro, le vostre parole, le sigarette tra le labbra, fa vedere cosa esce a luglio, Jessica ho cambiato casa, c’hai un euro che vado al distributore?, l’amica, la tua faccia del cazzo. Rimane bello anche così. L’amore è, in effetti, “la cosa più potente dell’universo”.

Una rubrica a cura di © Alessandra Stanisteanu.