POCO-BREVE STORIA DI INQUILINI ALBINI IN CERCA DI CASA
Permettendo spazio alla discontinuità ideologica che mi caratterizza alle prime ore, mi sveglio, dischiudo la finestra ed inizio a transitare ruminosamente per la camera per poi inclinare il busto di poco in avanti, spingendo ad introdurmi verso il bagno. Il bagno è nuovo, sconosciuto, familiare, luminoso. Uno spiazzo a led attribuisce una modesta lucentezza allo specchio, che occupa buona misura sulla parete piastrellata a cui s’appoggia. Sosto davanti al lavabo e inerme mi osservo, per qualche minuto. Eseguo qualche smorfia, metto in moto le mani, i palmi si aprono e chiudono intermittenti, faccio muovere i gomiti, espando le narici e la sequenza diventa un gioco a riconoscermi nell’analogo riflesso esterno, la “comparsa” emisferica contro-laterale sull’altro lato della realtà adesiva. Un classico cinematografico, forse.
Noto con riluttanza iniziale che un nuovo capello bianco emerge, subentrando al contratto d’affitto annuale rinnovato indeterminatamente dagli altri cinque o sei inquilini, sparsi per la frangia disordinata. Converso con me stesso e mi riscopro definendomi la parte locatrice “disappartenente”, disinteressata: per me puoi star qui finché vuoi, basta che sottostai alle minime norme della buona convivenza civile e paghi, trimestralmente, l’affitto. Sì, un contributo trimestrale, preferisco. I coinquilini richiedono un aumento dell’offerta qualitativa all’abitacolo – lavori di manutenzione o riparazione routinari – e intransigenti optano per farmi prenotare una visita dal parrucchiere. Io, nonostante abbia a cuore la loro buona salute, anche questa volta rimando e con sufficienza inalterata sorrido replicando con il silenzio. Benché l’intenzione iniziale mi motivi a sfrattare la clientela in cambio di qualche ora di normalità e quiete, l’esito finale è sempre e comunque uno solo: alle volte ci passo le giornate, ad ispezionare l’abitacolo in cui alloggiano. La forma percettiva della testa – in comodato d’uso –, gli spigoli delle discrepanze cutanee, la spazialità recepita delle gambe, le sopracciglia che corrugandosi si nascondono ogni tanto in loro stesse per non pagare i tributi (evasori fiscali). Ma i capelli canuti, mi ci soffermo. I capelli chiari, rappresentativi dell’anzianità e della transizione temporale, il simbolo dell’efficacia invadente e pervasiva di ciò che si interiorizza per espressione esperienziale, i capelli dal bianco semantico, associativo, quei pochi eletti che schiaffano sulla superficie speculare la visibilità di un’impronta, e che mi aiutano a reiterare un impossibile, ma sostanzialmente essenziale dato legale: per causalità, ogni proposta vissuta che lascia un notevole segno, interpretativo. È il verbo delle cose accadute, è il predicato degli accaduti esposti e rielaborati. È la verità propria e quello che ci fai, con la verità implicitamente orpellata d’improprio. Aggrappati, avvinghiati, appesi a quei capelli, ci sono le parole che s’inter-scambiano nell’aria, le stimolazioni captate, le risposte elettro-chimico-fisiologiche espletate, o fallite, gli istanti appercepiti, e gli individui con cui hai dialogato.
E allora, dunque, per tal ragione, ci ripenso. Il capello bianco non lo sfratto più. Mi è amico datato, mi fa raggelare il sangue, mi appesantisce il capo, mi esalta i capillari, mi svilisce i vascolari, mi comprende quando taccio. E quelle azioni rimaste a mezzo soffio d’aria, pur loro si rivelano correlativi, purché non essendo efficaci moventi nella consequenzialità di un colore ossigenato e privato del suo indumento colorato. Inquilini che girano nudi, per casa. I capelli bianchi si innestano indomati nelle nicchie capellute, si stanziano regolarmente, ma narrano dell’irregolarità. A questo punto, allo specchio, socchiudo gli occhi e lascio avvolgere le iridi dalle palpebre fino a vedere nulla se non scuro. Sorprendentemente, la categorizzazione dell’oggetto capello albino persiste nelle prime pieghe dei recettori oculari. Apro, e con una dolcezza innominabile mi fingo lamento. Che fastidio, i capelli bianchi, sarà genetica: mio nonno sbiancò presto, mio padre sbiancò presto. Sbiancarono presto, davvero?
Se è genetica, se è molecolarità, se pare diffusione di codifica replicativa, allora probabilmente lo è, ma non del tutto. E qui, potrei fare un riferimento richiamato “breve” alla centralità epigenetica adattiva, ma rifiuto e continuo a non voler deturpare una così semplice fuga di idee. I capelli bianchi hanno pagato anche oggi l’affitto. Li debbo rimproverare, però, della loro assenza di interesse condominiale: l’amministrazione mi riferisce che tendono a fare sempre un gran rumore, durante le ore notturne. Correranno energizzati sulle pavimentazioni dimenticandosi i vicini ai piani sottostanti. E allora li rimprovero, dicevo, ma in fondo so che il vicinato circostante, tutto imbrattato e definito dall’indumento nuovo e stravagante, può anche un poco arrangiarsi, e andare caldamente a quel paese. Mi spettino la frangia, la mia età non ha una voce.
Forse, se mi va, li sfratto domani. Oggi no.
I capelli bianchi destano scandalo, forse, ma loro dicono la verità, o qualcosa che gli ci assomiglia, inevitabilmente. Esco dal bagno, mi dirigo verso la cucina. Immobilizzo ciò che tutto intorno si vede.
Mi correggo – loro sono la verità.
Un’idea progettuale narrativo-fotografica a cura di Alessandra Stanisteanu ©.