LA SINGOLARITA’ RIPETITIVO-DUALISTICA

SINTOMATOLOGIA DEL CAFFE’

Ticchettìo. Ticchettìo si dice? Ticchettìo di pioggia. Come un ladro disarmato, mi sveglio lentamente, mi sviscero dalle coperte, mi dirigo verso l’erogatore di caffè. Accompagno le gocce d’acqua che scendono al suolo con i passi, vado a ritmo. La macchinetta brontola. Ed eccoli soggiungere, arrivano. I fuggiaschi, le parole camuffate da pensiero. Iniziano a correre, s’intensificano e la prima sensazione che elaboro è quella di un fastidioso contraccolpo. Va bene, penso, mentre agguanto la tazza. Allora sommessamente mi posiziono alla scrivania, appoggio il caffè, di fronte ho il monitor e rocambolescamente faccio scorrere l’indice sulle lettere della tastiera in senso antiorario. Disegno piccoli cerchi, cerchietti. Sospiro e mi abbandono all’idea. ‘Ti detesto’ mi rivolgo alla tastiera. La detesto davvero, incarna convenienza e celebrità, rapidità, immediatezza. Scrivo così.

Da bambina, accompagnavo mio padre al bar appresso la farmacia, qualche centinaio di metro a separarli, strade inaridite dall’autunno, inumidite dallo scroscìo delle foglie ingiallite. Aveva questo modo di irrompere, di scattare, di ordinare vezzeggiativamente il caffè per entrambi. Mia madre lo beveva con lo zucchero di canna, l’uomo affiancatoci richiedeva sempre il miele. Quelle buste microscopiche arancioni, definite da chissà qual portento di marchio alimentare in vetta durante il primo decennio del duemila. Insomma, aperta la busta, chiedeva a me di versarne il contenuto nella tazza. Io, da bambino spasmodicamente disegnatore qual’ero, tracciavo con il miele le linee curve che avrebbero dovuto comporre e chiudere l’onda di un cuore. E lì, mio padre compiaciuto aveva avuto quel tratto di compensazione richiesta da parte di un figlio che sarebbe poi divenuto anarchico solo a metà.

Durante gli ultimi anni del liceo – questo ricettacolo quinquennale di favoritismi e crisi identitarie – presi l’abitudine di passare presso i distributori a raccogliere caffè di primo mattino. Di prassi, poteva essere fatto anche durante l’intervallo di pausa a metà giornata. Dunque, io solevo rifarlo più volte nell’arco di cinque ore, così come i compagni che mi accompagnavano lungo i corridoi. Era una competizione a chi per primo diveniva adulto, non grande. Ho iniziato con il caffè dolce: tre tacche. Poi, andavo progressivamente a diminuirne il quantitativo, poichè il dolce sulla lunga trasversata annoia chi di noia facile soffre. Ho cambiato nuovamente con l’avvento dell’università. Lì c’era altra aria, altro sapore, altra voglia. Al caffè si univano le sigarette. Il caffè poteva nascere da una capsula, da una cialda dimenticata in armadietto, da una moka, da un momento, da un’incomprensione, da un segreto. Camel blu, Camel gialle, Lucky Strike, American Spirit azzurre, gialle, trinciato, Merit Bay, Marlboro oro, light, might, tight spot. E andava in tendenza il retrogusto duro, amaro, quello arabico direbbe l’europeo. Così ce ne stavamo con le nostre tazze bollenti e le nostre sigarette pendenti tra le dita, a blaterare dell’una e altra cosa: di quanto Aristotele avesse monopolizzato la sensorialità degli avventi filosofici, di come il sistema istituzionale italiano facesse apprensivamente cagare, di quando lei si prese una cotta per Daniele all’angolo dell’adolescenza, di quanto discutibile e francamente anti-meritocratico fosse il canale d’istruzione didattico e di quale strumento avremmo potuto suonare la sera dopo, prima di cena. Poi ci si chiedeva quanti esami avremmo dato la sessione successiva. Ad alitarci contro le nostre visioni. Era il rito della retorica. E dopo è arrivata la pandemia virulenta.

Lo sfondo lo delinea Guccini con Canzone delle Domande Consuete. Do retta a Guccini quando so di non poter dare retta e addito a me, conseguentemente la sua musica riesce a perforare il mio canale uditivo senza passare per il filtro di mezza via. E mentre questo individuo espelle fuori nauseato e concitato allo stesso modo le sue banalissime incertezze universali, io esprimo le mie con un venale e spassionato disappunto. Ritornando al mio caffè, valuto il senso che si cela dietro alla coltre della mia gestualità: ora lo bevo con un cucchiaio di miele. Senza non mi tocca, come fosse privato della sua intrinseca motivazione all’esistenza. Un macinato di amarezza con la punta dolce del mio sintomo – uno spettro patologico che fa breccia tra le mura innalzate della falce berliniana. Rendo nutrimento alla ripetizione inconscia dell’eredità fantasmatica del bagaglio sintomico e mi accorgo che è tutta lì la mezza replica al quesito. Non nella mia parsimonia, nemmeno nella mia incoscienza, nella mia non-scienza, nella mia volontà di potenza. Ma lì, nella lieve e acuta traslazione del cucchiaio alla tazza, nel miele che si lascia veicolare, nel tuffo. Nell’accoglienza e nella premura capillare della sintomatologia remota. Nel mio caffè con il miele.

Guccini si spegne. Cosa ne vorrà mai sapere, uno come Guccini. Me lo domando in maniera sincera e fuori la pioggia si accascia. Caffè ripetuto con miele.

Mattine imperversano, 2020 – Fotografia a cura di © Alessandra Stanisteanu.

A cura di © Alessandra Stanisteanu

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