LA VOCAZIONE AL PARADOSSO

QUANDO L’ACCORAMENTO SI DISCOSTA DALLA RICERCA DEL QUIETO

Il mondo non appartiene agli incerti, agli infelici, agli eterni sfrontati, ai condannati a lunga sentenza di pensiero – incomincio dicendo – bensì è e si manifesta visceralmente e in carne attraverso i loro corpi, succubi alla forza di gravità e all’imperativo della velocità del ventunesimo secolo. Mi trovo sulla riviera, conduco le mie gambe tra un ciottolo di conchiglia e l’altro. Intorno a me i trentadue gradi, le anziane a braccetto discorrendo della gravidanza della cugina del marito della secondogenita, le biciclette sulla ciclabile che sferzano l’aria satura di chiacchiericcio, qualche gatto randagio, una bambina che danza a suono delle melodie diffuse dall’Algida. Mi induco a trangugiare di vissuti, mentre imbratto i miei movimenti del tumido rigore libertino che aleggia per il percorso di strada, tipico della regione emiliana. Ci ancoriamo alla spiaggia, mi stendo, ti sdrai, spingo con pochi colpetti drizzando sui lembi del telo. Esperisco un incontro ravvicinato con il signor Frédéric Beigbeder che, attraverso qualche pagina del libro, subito mi catapulta di fronte alla promiscuità dell’esistenza umana: citando prepotente Adolphe di Constant – inizi dell’Ottocento – mi deride scommettendo sulla fallimentare influenza della metafisica, che non giustifica mai chi arreca dolore al cuore che l’ama. E quante volte forse, frammentati tra l’Io e l’Altro, non introiettiamo l’improprio e pregiudichiamo il prossimo che ci ama? E’ la condizione essenziale dell’interferenza a due. Ti guardo di sbieco, sorrido tramite un irriverentissimo sforzo di mento. Forse è tempo di fare il bagno a mare. O forse no. Aspetta, ancora un poco.

Quello che restituisco a Beigbeder è indubbiamente il senso cinico della rassegnazione all’inconciliabile sinossi della vita nel dolore: un trentenne che rinnega i venti, commette adulterio, dubita dell’amore, crede nella sessualità, smista nozioni di neurobiologia, osannando alla trasposizione scientifica limbico-ormonale, depone statistiche internazionali disputando su poligamia e diritto alla completezza del contento e, non per ultimo, antepone il mistero alla quiete. Si scinde, come mi scindo pur’io, ma scindere non è disgregare e qui mi raccolgo.

“L’amore dura tre anni.”, “L’amore non esiste.”

sono le regole che governano il suo francesismo – e va bene può pur essere come no! esclamo perfino trasognata – ma si deve pur ammettere che, con alta probabilità, ad oggi si permane nella convenzione di una ricerca che – se insita alla complessità della vita stessa – non può reggersi con omogenea accezione e dogmatico pragmatismo. Sì, sto parlando della ricerca della felicità! Questa sconosciuta.

Come nel sentimento all’amore, così nel sentimento dell’esistenza si oscilla tra inquietudine e tranquillità, tra un Dalì e un Balla, tra oratore e artificio, tra significato e significante, tra filosofia dell’ozio nella potenzialità del possibile e tangibilità del pensiero nel rigore della logica materialistica. Purtroppo – io dico per fortuna – noi esseri umani nasciamo sghembi, diveniamo automi, ci reinventiamo esploratori dell’ignoto. E qual peggior condanna se non quella dell’inculcata e demeritata premonizione alla persecuzione “felice”! S’intende, la felicità non s’insegue, arriva, sovviene, perdura e la si lascia scivolare tra i palmi delle mani. E’ segmentata, euforia e adrenalina, altresì si lascia definire a piacimento e per comodità quantificabile del cervello come quiete, serenità e pace di mente. Nirvana, apice, orgasmo: la si denomini come si vuole. Il predellino a capo di una roulotte, la percezione dell’attimo antecedente all’evento che eradica o travolge: l’incipit di un lancio a cielo aperto. Chiaramente mi pare doveroso richiamare all’artificiosità dei sostantivi, dei verbi e della sintassi quando si considera una parola quale “felicità”, ma questa volta lascerò spazio ad altro. Estenuante è realmente la convalescenza passiva della notorietà e del risarcimento al ricercatore di felicità: perché all’infelice non viene mai concesso di essere tale in santa pace? La risposta ubica nell’accettazione graduale del parametro sociale. E’ – per introiezione – un modo per potersi dire che si ha senso all’interno del caotico flusso esperienziale a cui siamo costantemente sottoposti; la maniera più semplice. Io ho senso quando sono felice – dice l’uomo – io non ho senso quando sono triste. Sono sbagliato, inadeguato, quando navigo tra le onde della vaghezza, dell’instabilità, dell’interrogativo e della colpa di essere, apparire, discernere. Tra le crepe di un’anfora, l’individuo guarda alla motivazione ultima della società industrializzata: quella della cosiddetta – da me – “felicità meccanica“. L’inappagamento deriva dall’inarrivabile congruenza nel paradosso della tecnica d’affronto all’affaccendarsi vitale: s’insegna a non avere paura ad essere felici, ma ci si priva dei mezzi per poter non raggiungere la felicità, ma comprenderla e viverla nella totalità dell’essenza. Si bandisce, allo stesso tempo, di non poter provare timore dell’inspiegabile decorso paradossale dell’emozione irascibile, indefinita, ineffabile. Si ha tempo per giustizia di quale scritta e sancita morale apocrife e ridondante opulenza di temere eccome il dubbio, si rifletta. Il dubbio muove, la quiete posa. Il dubbio è cattivo, la felicità è buona. Il dubbio è inammissibile o inesorabile, la tranquillità d’animo necessaria. E se i termini con cui si scrive la norma del pensiero si ribaltassero, domani?

Non aspetto fino a domani. Mi piego per accertarmi di non essermi esposta troppo le dita al sole. Attaccano colore repentinamente, più del resto del corpo (arti, viso, schiena, zona sacrale). In primo piano il calare della luce – sette e ventitré, – da badare al parchimetro. Tu mi domandi a cosa penso, cosa decido? Come replico? Ammicco. L’ennesima spirale di idee sconclusionate. A niente!, mi travolge la pigrizia. Quanto è dolce la profondità del mare. Tu ti sporgi per rivolgermi una carezza, la mia testa vaga tra la squisitezza dell’interrogativo e la trasparenza della scelta e lì mi ricordo di quando avevo visto per la prima volta uno sposare una di fronte ad altri uni che facevano le parti degli altri. Là so: l’uomo non è congegno ad effetto, è anima(le) interessante con una sola vocazione: non quella al dettato della congruenza, ma all’intensità del paradosso, dell’ambiguità, che nasconde in sé la meraviglia di un’insaziabile evoluzione.

Istante in Fuga, Emilia-Romagna. A mare. Fotografia di Alessandra Stanisteanu.

A cura di © Alessandra Stanisteanu.

LA GENITORIALITA’ DEL FIGLIO

SE RESTO APPRESSO, MI LASCI ANDARE?

BREVE TRATTATO SUL GENITORE POTENZIALE

Uno dei ricordi a me cari per eccellenza – un tassello di mosaico che ospito ad oggi con la premura di una carezza sospesa e detersa nell’atmosfera – è quello di mia madre che spesso e volentieri, a guidare in macchina al rientro da scuola, tambureggiava con l’indice della mano destra sul volante a ritmo e cadenza delle musiche anni ’90 che faceva girare sulla sua autoradio a cassette. Titoli grezzi, irruenti – titoli martellanti e incombenti, eclissanti – che s’appaiavano perfettamente all’aria rarefatta della sera. Rimanevo a fare doposcuola, trepidante di poterla vedere comparire al cancello della struttura scolastica e sferzare con cupidigia timorosa le ruote dell’alfa romeo, laccata di nero, usurata, seconda mano, almeno cento-trentamila chilometri a contare. Così, ogni tardo pomeriggio, a cavallo tra il lunedì e il venerdì, lei scendeva dalla vettura alle cinque e mezzo, lasciava adagiare senza alcuna forza bruta la portiera, si appiccicava al cemento e attendeva rimirando attraverso le grate di quel posto. Veniva sempre in divisa da lavoro e all’epoca mi pareva di correre incontro a un idraulico improvvisato, scarmigliato dagli esoneri della vita e immerso in un eterno verde scuro. Verde scuro era il colore della salopette, verde scuro il pantalone, verde scuro la maglia a maniche lunghe e cadenti, verde profondo quando la osservavo travasare con la bocca le poche parole alla guida; un profilo lungo e affusolato, un naso preminente, le labbra incurvate, gonfie, di un piacevole e delicato gradiente fuligginoso. I capelli corvini all’indietro, due mollette ingenue, dentellate, a generare incongruenza spaziale tra l’apice del capello e la periferia della fronte e quello sconfinato magnetismo che mi trascinava a fondermi – indipendentemente da ciò che facesse – insieme al suo essere, a tal punto da non ricordarmi più come si facesse a riconoscere il mio.

In mezzo alla fanghiglia di quelle melodie, del post-rock, del morbido, della dance americana, s’insinuavano il suo temperamento e le sue ambizioni nel mio nucleo di aspirazioni: contaminandolo, tergendolo, “intingendolo” di tempera. Tempera ad olio – mia madre lavorava da giovane china su iconografie che poi, tumefatte dai suoi sogni, vendeva come poteva per strade e borghi – olio su tempera, congegni accatastati l’uno all’altro. Questo sembrerebbe essere il bagaglio d’eredità che lei mi ha lasciato, rifletto ad oggi. Assieme agli istanti, vi alloggiava l’eternità delle sue contraddizioni, della sua ambivalenza, dei suoi tremori, di quello che gelosamente custodiva senza sentirsi in possibilità di analizzare, di conoscere, di accudire nelle profondità più recondite della fragilità umana, condizione imperturbabile, agro-dolce.

E se il figlio si assume la responsabilità di essere, preventivamente, prodotto di un fantasmatico intruglio tra circostanza ambientale, fenomeno e inconfutabilità genetica, allora il genitore – che spesso funge da figurino autorevole, dotato di una particolare e a tratti stravagante antinomia morale – andrebbe rivalutato a occhi aperti e mente lucida come essere umano tra ruolo e espressione. Il rapporto bilaterale che intercorre nella dinamica dualistica prole-caregiver – nello specifico “madre sufficientemente buona” -, aveva anticipato già lo studioso e pediatra Donald Winnicott negli anni ’50, si forgia all’interno di uno spazio e di un tempo dotati di una sola accezione e non implica in nessun modo la trattativa e il compromesso promotori della genesi di un dono, bensì di una vera e propria vocazione al paradosso per antonomasia.

Il figlio, interfacciandosi con le domande e le repliche del mondo odierno, si butta a capofitto in quella che è l’incertezza della presenza familiare e dell’attaccamento al genitore accompagnatore che, a lungo termine, può divenire genitore potenziale – come lo definisco io – e promulgatore di scelte e incitazioni che escludono però la totalitarietà delle proprie forme d’identificazione proiettive o retroattive che siano, apprendendo a coniugare il verbo della difformità. Spesso accade che, appropriandosi del sentimento megalomane dell’appartenenza e del possesso, la figura adulta si dimentichi di insegnare e impartire con passione al proprio bambino non il discernimento tra bene e male – che di dicotomie artificiali la realtà è ben avida!- , bensì l’onnipresente facoltà della scelta di cui il piccolo non verrà mai privato: io, genitore, cerco al mio meglio di non promuovere il diniego, il divieto o l’incongruenza attraverso il modus operandi del “non si deve fare così poiché è sbagliato e non va bene“, ma m’impegno a donarti la potenzialità del desiderio nel tuo personale cammino di vita tramite il “tu puoi fare sia così che negli altri modi, io ti informo sulle disponibilità e sulle correlative conseguenze ed effetti che le tue azioni e i tuoi pensieri possono scaturire all’interno della tua forma di vita – difforme dalla mia”, responsabilizzando e arricchendo quel senso acuto di vista e senso emotivo che in ogni individuo prende segmenti e definizioni uniche, poco algoritmiche. A fare la differenza, nel processo di interazione e crescita introspettiva e interpersonale dei due ecosistemi, risulta essere proprio la presa di coscienza e la consapevolezza dell'”effetto farfalla” che veicola e governa il proprio senso di identità e quello del prossimo. Ecco come l’Io nasce e evolve sempre nell’Altro – a detta di un certo signor Heidegger – che aveva già disposto nelle sue filosofie la corrispondenza dell’individualismo nella mondanità sociale e culturale. Io mi rispecchio in te – dice il genitore – ma tu non sei me. Io mi vedo in te – dice il figlio – ma non sono te. Entrambi affermano e ribaltano, riaffermano e ricostruiscono la propria individualità attraverso l’uno il lascito, le risorse e la complessità ereditaria dell’altro: il vero colpo alla lotteria lo si ha quando al piccolo viene insegnato a stipulare, raccontare, trascendersi e conoscere a parole sue, a passi propri, a verbo incarnato – che non sarà mai quello del genitore. D’altro canto, quest’ultimo ne prende atto e accoglie la metamorfosi del bambino nell’apoteosi della diversità esplorativa: gli impartisce la vita pur non appropriarsene, gli vuole bene e gli promulga a volersi bene esattamente per quello che sceglie di essere, senza accantonare il suo ruolo di fonte di ricerca e di sosta, di informazione, di consiglio. Quando ciò avviene, le posizioni si confondono gradualmente in maniera spontanea, la relazione a suo tempo diviene “orizzontale” e l’omeostasi tra ruolo ricoperto e espressione umana viene preservata.

E non c’è da sorprendersi se – tra ieri e domani – mi ritrovo a vent’anni a tamburellare, a mia volta, con l’indice sul voltante dell’automobile, con la playlist diffusa a bluetooth che trasmette titoli remoti, e quasi relegati ad un postmodernismo cinico, come quello di “All about Us”, delle t.A.T.u girls. In grembo una sensazione familiare: mi guardo nello specchietto, gli occhi sono quelli di mia madre, il riverbero è mio. E’ l’invulnerabile non invadenza della genitorialità del figlio.

Famiglia a Passeggio. Parma, 2019.

A cura di © Alessandra Stanisteanu.

IL SENSISMO E LA CORSA NELL’ INCONGRUO

QUANDO IL RESPIRO SI TRAMUTA IN ASCOLTO

Ci ritroviamo sul lungo mare, passeggiamo, i passi si muovono brevi. Sono le cinque e mezzo di sera, ciò significa che – da insopportabile calcolatore – decido di accollarmi due conti e misurare tramite un calibro astratto ciò che in dimensione permane del tempo al sole. E’ estate – vorresti dirmi tu, e ti tradisce l’espressione – pertanto i raggi calano tardi e l’ombra si fa attendere. Lo comunichi con la gestualità: la bocca tesa, le palpebre dimesse, le gote dall’accento incerto e il vento che incomincia a praticare la sua danza sulle braccia, ergendosi imponente al di sopra del confine.

Come a voler restare in studio, poggio i gomiti a mezz’aria, traccio qualche linea di conforto tra l’acqua che resiste e il cielo che s’accomoda, genero in forma mentis matrici inusuali, talvolta spoglie di norme consuetudinarie, che mi possano permettere di regolarizzare l’ambiente e familiarizzare con la brezza inesaudita. Affondiamo i piedi nella sabbia, i granelli s’impongono di volere a me seppellire quest’irrefrenabile voglia di correre, di sollevarsi, di primeggiare sul terreno. Così mi abbandono adagio e tu te ne accorgi.

Scegliamo presto un luogo dove stendere i teli, un luogo di una peculiare centralità, singolare e esteriormente inaccessibile alla distrazione socio-analitica in dotazione sul momento: genitori disertati, coppie naufraghe, stendardi italiani, interminabile contenimento di paroline accatastate l’una all’altra, bimbi aggrovigliati al pallone, occhiali da sole, altri occhiali da sole, molti occhiali da sole. I nostri – penso – sono occhiali da vista. Allo sopraggiungere delle onde che, per gradualità e in crescendo si scagliano con voga sulla riva, fugace mi rammento di un particolare: una rapida intermittenza, un passo di una poesia di quell’antico di Turgenev, quasi immediatamente riportato in uno dei sette cassetti della mia memoria a breve termine – la porta d’ingresso che segna la fine della camera subconscia. Custodisco gelosamente quel frammento di reliquia. Mi volto in direzione del porto lasciandomi accecare dai raggi ormai in divenire fiochi: quasi non me ne accorgo, il ricordo dell’amico russo già sfoca all’interno della mia mente, va lontano. Forse s’insedia nell’ultimo scompartimento della corteccia parieto-occipitale. Rimane solo un’orda di riverberi armati a dare la caccia alle nostre ciglia.

A volte mi fungi da distrazione, sei distrazione, sei gioco, sei nulla di serio. Come io mi percepisco attraverso i sensi organici un nulla di serio. E mentre agguanto la fotocamera decido contemporaneamente intenzione e preciso comunicante. Mi avvalgo di scelte, mi distraggo da te. Monto l’obbiettivo, do un colpetto titubante alla manopola d’accensione, m’invento di volermi sbizzarrire con il fuoco. Una breve frazione di secondo, la fotografia viene inviata al sistema di memoria. Un alone nerognolo compare, al centro della scena, ostruendo la centralità dello sfondo.

“Il digitale fa cagare.”

pronuncio. Ho ancora un occhio scoperto – un oblò impolverato – e l’altro immerso nel mirino. Tu ammicchi e io intendo tu stia pensando a quanto quello che esce dalle mie labbra sia sciocco, a volte. Inizia a spingere come un treno, questo dio vento, e la tua periferia corporea si accerta di informarti che è tempo di levare l’ancora e far salpare la nave verso l’entroterra della città. A me la pelle si trasforma, ho la peluria delle braccia che si rizza.

“Che freddo!” esclamo e allora, con sorpresa, al posto di tuffarmi nei miei pantaloni, che faccio? Mi svesto ancora e mi scopro lasciandomi in costume. Tu mi guardi, stordito, aggiungi: “Che freddo, ma tu ti spogli?” e sembri sorpreso, ma io so e riconosco che in fondo – probabilmente – tu non lo sia realmente. Lascio il decorso di una risata e ti replico che non me ne frega niente, perché quando si ha in mano un potere come quello di poter manipolare a piacimento spazio e temporaneità, i brividi e le sensazioni si fanno da parte per poter lasciar concorrere davanti a loro un atleta di gran lunga più efficiente: l’illusione della celebrità di potere nel lago della finitezza come imprescindibile e inconfutabilmente irritante condizione umana. Dunque, attraverso i mezzi fornitemi dalla prospettiva emotiva riesco a sentire un incurvamento delle pieghe agli estremi della tua bocca e ti concedo pure di allontanarti e confonderti in mezzo ai banchi d’acqua davanti a noi. Un brusio, i cortei di folle andarsene facendo emergere impronte sulla sabbia, i toni e le cacofonie affievolirsi, il tuo respiro e il telo che ondeggia, mentre ci armeggi per poterlo sgomberare dai residui di spiaggia: mi rimangono circa sei secondi virgola novecentosessantadue per poter evacuare gli angoli della mia vocazione allo scatto. Che diceva, Turgenev? Non riesco proprio a recuperare. Ciabatte ai piedi, attrezzatura in spalla. Il mare ci saluta con un bell’arrivederci, a me sembra perfino rivolgere l’occhiolino.

Igea Marina, 2020. Scorci Incongrui al Tramonto.

Un monologo a cura di © Alessandra Stanisteanu

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