QUANDO IL RESPIRO SI TRAMUTA IN ASCOLTO
Ci ritroviamo sul lungo mare, passeggiamo, i passi si muovono brevi. Sono le cinque e mezzo di sera, ciò significa che – da insopportabile calcolatore – decido di accollarmi due conti e misurare tramite un calibro astratto ciò che in dimensione permane del tempo al sole. E’ estate – vorresti dirmi tu, e ti tradisce l’espressione – pertanto i raggi calano tardi e l’ombra si fa attendere. Lo comunichi con la gestualità: la bocca tesa, le palpebre dimesse, le gote dall’accento incerto e il vento che incomincia a praticare la sua danza sulle braccia, ergendosi imponente al di sopra del confine.
Come a voler restare in studio, poggio i gomiti a mezz’aria, traccio qualche linea di conforto tra l’acqua che resiste e il cielo che s’accomoda, genero in forma mentis matrici inusuali, talvolta spoglie di norme consuetudinarie, che mi possano permettere di regolarizzare l’ambiente e familiarizzare con la brezza inesaudita. Affondiamo i piedi nella sabbia, i granelli s’impongono di volere a me seppellire quest’irrefrenabile voglia di correre, di sollevarsi, di primeggiare sul terreno. Così mi abbandono adagio e tu te ne accorgi.
Scegliamo presto un luogo dove stendere i teli, un luogo di una peculiare centralità, singolare e esteriormente inaccessibile alla distrazione socio-analitica in dotazione sul momento: genitori disertati, coppie naufraghe, stendardi italiani, interminabile contenimento di paroline accatastate l’una all’altra, bimbi aggrovigliati al pallone, occhiali da sole, altri occhiali da sole, molti occhiali da sole. I nostri – penso – sono occhiali da vista. Allo sopraggiungere delle onde che, per gradualità e in crescendo si scagliano con voga sulla riva, fugace mi rammento di un particolare: una rapida intermittenza, un passo di una poesia di quell’antico di Turgenev, quasi immediatamente riportato in uno dei sette cassetti della mia memoria a breve termine – la porta d’ingresso che segna la fine della camera subconscia. Custodisco gelosamente quel frammento di reliquia. Mi volto in direzione del porto lasciandomi accecare dai raggi ormai in divenire fiochi: quasi non me ne accorgo, il ricordo dell’amico russo già sfoca all’interno della mia mente, va lontano. Forse s’insedia nell’ultimo scompartimento della corteccia parieto-occipitale. Rimane solo un’orda di riverberi armati a dare la caccia alle nostre ciglia.
A volte mi fungi da distrazione, sei distrazione, sei gioco, sei nulla di serio. Come io mi percepisco attraverso i sensi organici un nulla di serio. E mentre agguanto la fotocamera decido contemporaneamente intenzione e preciso comunicante. Mi avvalgo di scelte, mi distraggo da te. Monto l’obbiettivo, do un colpetto titubante alla manopola d’accensione, m’invento di volermi sbizzarrire con il fuoco. Una breve frazione di secondo, la fotografia viene inviata al sistema di memoria. Un alone nerognolo compare, al centro della scena, ostruendo la centralità dello sfondo.
“Il digitale fa cagare.”
pronuncio. Ho ancora un occhio scoperto – un oblò impolverato – e l’altro immerso nel mirino. Tu ammicchi e io intendo tu stia pensando a quanto quello che esce dalle mie labbra sia sciocco, a volte. Inizia a spingere come un treno, questo dio vento, e la tua periferia corporea si accerta di informarti che è tempo di levare l’ancora e far salpare la nave verso l’entroterra della città. A me la pelle si trasforma, ho la peluria delle braccia che si rizza.
“Che freddo!” esclamo e allora, con sorpresa, al posto di tuffarmi nei miei pantaloni, che faccio? Mi svesto ancora e mi scopro lasciandomi in costume. Tu mi guardi, stordito, aggiungi: “Che freddo, ma tu ti spogli?” e sembri sorpreso, ma io so e riconosco che in fondo – probabilmente – tu non lo sia realmente. Lascio il decorso di una risata e ti replico che non me ne frega niente, perché quando si ha in mano un potere come quello di poter manipolare a piacimento spazio e temporaneità, i brividi e le sensazioni si fanno da parte per poter lasciar concorrere davanti a loro un atleta di gran lunga più efficiente: l’illusione della celebrità di potere nel lago della finitezza come imprescindibile e inconfutabilmente irritante condizione umana. Dunque, attraverso i mezzi fornitemi dalla prospettiva emotiva riesco a sentire un incurvamento delle pieghe agli estremi della tua bocca e ti concedo pure di allontanarti e confonderti in mezzo ai banchi d’acqua davanti a noi. Un brusio, i cortei di folle andarsene facendo emergere impronte sulla sabbia, i toni e le cacofonie affievolirsi, il tuo respiro e il telo che ondeggia, mentre ci armeggi per poterlo sgomberare dai residui di spiaggia: mi rimangono circa sei secondi virgola novecentosessantadue per poter evacuare gli angoli della mia vocazione allo scatto. Che diceva, Turgenev? Non riesco proprio a recuperare. Ciabatte ai piedi, attrezzatura in spalla. Il mare ci saluta con un bell’arrivederci, a me sembra perfino rivolgere l’occhiolino.

Un monologo a cura di © Alessandra Stanisteanu