ESTIRPAZIONE IDENTIFICO-EMOTIVA

DI NEGOZIAZIONI E CECITA’ DIS-LOCATE

Leggo da qualche parte che gli acidi gastrointestinali sono in grado di sciogliere in relativo breve finestro di temporalità perfino una lama da barba, mi risuona un ventiequattro ore di digestione. Storco il naso, le narici si riposano e mi rigiro sul bracciolo del divano. Bevo dell’Allini bianco da mercato, sorseggio l’amarezza sulla punta delle discrepate ricurvature labiali. Accendo la sigaretta, la sistemo salda e finisco per spalleggiare sul dorso del mobile. Penso alle inflazioni sinuose dell’obiettività mercantile attiva, alle reliquie dell’alfabeto cromatico e ad altre invenzioni strambe partorite dalla cognizione intellettiva umana nel corso dello scorrere dell’avanzata. Svestiti, ci si raccoglie il crine in malomodo in modo tale da lasciar le ciocche andare un poco assieme all’aria. Mi ritrovo con uno chignon basso, spettinato, logoro e allo specchio la luce riflette sulle mie spalle, accentuando il rilievo sulle arcuazioni spinali. Se fossi diventata una gran atleta, mi dico. Mi guardo, di riflesso m’inarco e mi rivolgo una faccia neutrale. Ho gli occhi incavati, e le palpebre rigate. Spengo la sigaretta, appoggio il calice sul tavoletto, mi dirigo verso l’anticamera del bagno. Inizio a cospargermi il bordo esterno dei risvolti oculari con le linee peci, e con il pennello tiro lungo. Sono di nuovo zingaro. Il petto mi restituisce le riflettenti onde costine, m’appendo agli orecchi i cerchioni più grandi che posseggo. Premo marcatamente sulle labbra il rossetto numero serie quattrocento trentuno. E così mi sussurro: non m’importa, è incombente. Infilo il pantalone sgargiato celeste – l’ultimo completo che ho acquistato – e le gambe lo accolgono come fosse un secondo strato cutaneo a cui adibire. Mi copro il busto con un canottino scurissimo, abbottono, poi vesto il giacchetto di corrispondenza, a torso alto. Ai piedi m’adorno di un tacco semplice. Lascio andare il capello e la molletta cade a terra. Il gatto osserva, incuriosito. Lo chignon si dirama soddisfatto, agguanto la fotocamera e faccio partire l’otturatore di fronte alla superficie riflettente. Voglio andare via, voglio fuggire perchè temo quel che sta per arrivare. La fotografia è poco nitida perchè sfoco, e mi piace perchè è rappresentativa di quel che esperisco. La mia amica la vede, e mi dice: divertiti, lasciati alle spalle le durezze. Mi dice che son bella, lo esprime volgarmente. Le mando un bacio e le lascio una vocalizzazione divertita. Mi telefona, e mi ribadisce con foga: di-ver-ti-ti. Quasi fosse un presagio, lo scandisce. Aggancio in fretta. Afferro le chiavi dell’automobile, rivolgo un ultimo occhio alla casa, come se dovessi abbandonarla per sempre, ed esco decisa. I tacchi delineano traiettorie sui piani condominiali che sanno d’erosione. Guido fino al locale in periferia città. Le montagne lungo il vetro sono alte e confondibili al perimetro dello stacco orizzontale ceruleo. Aria condizionata, condizionamento. Cosa vuol dire, un condizionamento e cosa apporta uno stato di intollerabilità? Sono stanca, dunque sventolo con il palmo della mano sul volante, come a far svolazzar via ogni possibilità di dolore. Mamma due giorni prima mi dice in egual modo: vai dove vuoi. Vado dove volgo, vado dove sento, dove vedo. Parcheggio, entro nel locale, e mi circondo da amici e conoscenze, vecchie e nuove. Il chiasso è ridondante e allo stereo propongono una varietà mischiata di sonorità retrò. Penso: ‘sì, è qui che devo esser, per ora’. Ordino e al primo giro converso facendomi trascinare dalle sensorialità uditive rincuoranti. Ridacchio persino, un poco. Esco a fumare sola, e dall’uscio della porta locale s’affaccia un uomo alticcio, ha una montatura d’occhiale particolare, i capelli adagiati lungo la schiena e un viso incolto. Mi guarda, imbarazzato, indugia. Si schiarisce la voce e mi dice: Fumo con te, se non disturbo. Acconsento, perché non mi trasmette nulla di particolarmente allarmante e mi concede un istante microscopico di sporadicità. Da quando sono entrata nel locale, mi guardava con della dolcezza impasticcata da bancone. Beveva Hugo e parlicchiava con altre due donne, mentre tra una fuga visiva e l’altra s’insinuava fra le pieghe del mio spazio personale. Gli abbozzo un sorriso celere e continuo a stringere il filtro, poi aspiro e guardo un poco in direzione della strada. Mi si affianca e chiude una cartina con del Virginia semiumido. Lo conosco, perchè lo fumavo anch’io. Indossa delle scarpe marroni e il cappotto gli cade disordinato. Il silenzio lo spezzetta lui, poco a poco e nell’arco di qualche minuti ci ritroviamo a disputare su quale sia il miglior vinile del post-modernismo punk. Lui aspira, io inspiro. Lo trovo buffo, slanciato, piacevole. Va bene, e dice il mio nome. Sei elegante e complessa, e il tempo con te non lo percepisco, non me ne volere, sono affascinato mi dice, mentre goffamente s’infila una mano nel tasco destro. Mi dice che cosa fa e mi descrive la zona da cui viene. Io gli rispondo che qui sono di passaggio, il Trentino non m’appartiene in quell’istante. Rientro nella folla, mi rivolgo verso la compagnia della sera. Quando mi siedo, procedo con il secondo ordine e sfilo il taccuino, estraniandomi dalle circostanzialità serali. Scribacchio qualcosina. Fotografo giusto per appurare della realtà concreta di quel che ho appena fatto passeggiare sui fogli di carta. Dunque, la serata transita verso la conclusione in fretta, e prima di andarmene via, il ragazzo con gli occhiali mi sfiora cautamente con il braccio e mi regala un pezzo di fogliettino dicendomi Grazie, spero sinceramente di rivederti. Annuisco, e stringendo nel palmo il foglio mi congedo dagli altri, avviandomi verso il parcheggio. Ripongo l’appunto sul sedile del passeggero, accartocciato, senza leggerlo. Non mi sfiora nemmeno l’idea, con la guerra che sto per vedermi riversata contro. Guido, guido, dilaziono un poco e aspetto di fare il mio ingresso nell’abitazione. Scartoccio il foglio, e sospiro. Sopra c’è scritto: ti vedevo scrivere, e mi immaginavo molte cose. Volevo continuare a parlarti, ma un momento come quello non avevo il coraggio di contaminartelo. Poi, dei riferimenti sottostanti. Appena varco la soglia, non faccio in tempo a cambiarmi d’abito e a riabituarmi all’odore di casa, che la guerra è incominciata. Un attacco, un altro, un altro. Sono folate di vento gelido che mi riportano alla realtà e m’insegnano ancora una volta il verbo del disagio e dell’irrequietudine. Riformulo il ritmo respiratorio e il mio corpo va in stato di attivazione. Mi sorreggo all’appendiabiti. Poi, la cancellazione totale, la cecità. Sul banco della negoziazione, eccolo lì il quesito. Quanto vale un momento di detersione in cambio di una parentesi di sfregio? Il volto s’incupisce e io non mi riconosco. Sospesa, mi ritraggo, poi divengo risoluta e della mia colpa faccio una carta straccia. A riportarmi in me è un’amica, che pur non entrante, mi ripete. Respira, non devi. Sii tu, andrà bene. Non ti lasciare andare alle correnti. Lui, lui, lui, loro. Domani mattino, io sarò qua.

La mattina dopo, io mi sapevo, e ho adagiato il capo sul cuscino. Avevo compreso. Lei, dall’altro lato della cornetta, mi dice due stronzate per farmi ridere. Quanto dolore preteso, dis-gioia mia. Il giradischi viene acceso e con Let It Happen dei Tame Impala, mi lascio corrodere. Eppure guarda, dis-gioia mia, sono ancora a casa.

Una narrazione a cura di © M. A. Stanisteanu.

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