IDENTITA’ PAROSSISTICHE RIFORMULANTI: A QUANTO VIENE UNA TRACCIA DI COM-PASSIONE?
Sul giradischi, un vinile che imperituro assopisce le mie scardinanti mentalizzazioni. Sono gli Smiths, e menomale ch’ebbi comperato il loro Hatful of Hollow dalla copertina blu cristallizzato, ai primi d’Università. Ero a casa con te, ormai anni fa, quando mi sovvenne l’idea. Svestita quasi, era estate ed eravamo così emozionati. Eppur, quanti rumori afoni. Mi guardavi le mani, e le tessiture ad intreccio delle dita, dei palmi. A terra sul pavimento a piastrelle ottocentesche, due bicchieri e della rivoltante sentimentalità novizia. Sono così fugace, so che m’hai inseguita. Ti volevo solo veder correre da te. per te, affianco-mi. Tu m’assecondi sempre nei capricci, sai che sono volubile. Cosa mi rimane? Con gli Smiths, provavo a dirti di voler-ti, prima ancora di volermi. E ti fotografavo ancora.
Mi preparo il pranzo e fronte agl’occhi mi siede assieme del riso con verdura. Fuori del sole, la fotosintesi. Addento con la prima cucchiaiata, e i miei incisivi spezzano le molecole alimentari al ritmo della melodia che, dal salotto, m’invita a sorridere al riconoscimento formale dell’atto nutritivo di cui faccio spesso un’esigenza inaccomodabile. Dicevo, sulla copertina dell’album: quest’elettrico blu che capovolge le rimarcabilità di un’immagine in chiaro-scuro, dove un ragazzetto compare di profilo e contrasta lo sfondo, che non riesce ad inghiottirselo. Inizio a palleggiare con la concentrazione acuo-visiva e mi sposto leggiadra fra i colori della copertina e lo spettro cromatico del pranzo. Granitiche spighe, le scorgo e cerco come uno scultore di dentellarle senza elidere.
Mi alzo dalla sedia e mi posiziono al centro della stanza. Il piatto è vuoto e il cucchiaio rimane incastonato nei resti. Una donna che sbraita senza bocca al rock alternativo di un gruppo musicale in pendenza. Socchiudo le palpebre e mi lascio cader gli arti lungo il busto. Inizio a muovere le gambe e i piedi denudati rasenti al linoleum danzano solitari. Sènto, sono.
Good times for a change
See, the luck I’ve had
Can make a good man
Turn bad
a good man Turn Bad, e accompagno mentre le corde vocali si dispiegano e vibrano come fossero dei fili da sarto impigliatesi fra l’ultima vertebra e la punta della lingua. La chitarra degli Smiths mi irrobustisce. Quanto attendo, quando attendo.
So please, please, please
Let me, let me, let me
Let me get what I want
This time
E me lo ripeto, lo ribadisco dolcemente. Che mi si lasci avere, quel che voglio. Tu, mi ripetevi pregandomi l’apparente medesima cosa. Una richiesta a volitivi desideri cavi, opposita. Per piacere – dicevi – fammi ottenere quel che voglio, voglio te. E io ti volevo assieme, ma volevo tu volessi a te. Come posso amarti se non mi permetti d’amare quel che sei? A me non importa di quel che investi in me! E mi ritrovo a muovere le braccia intorno al torace e le gambe, piegandosi, mi fan danzare ancora. Sono la donna del niente, e un uomo che si rivolge di te.
Haven’t had a dream in a long time
See, the life I’ve had
Can make a good man bad
Quanto mi costa, tenderti la mano per aiutarti a raggiunger-ti, per voler-ti? E tu ti permetti solo d’amarmi! E ti consumi senza volerti vedere. Egoista! E con la rabbia che non mi considera, ruoto il corpo e lo fletto in avanti, mentre gli indici litigano con gli anulari. Tutti questi sostantivi indicativi, intransitivi che c’hanno voluto reggere e disperdere. Quanta onestà m’è servita, per parlarti, per accompagnarti, per avvolgerti nella piega del tempo senza pretese. Per parlare di un sentimento per l’identità sola, tua, e non per quanto m’amassi tu. I fianchi sono forti e ereditati da una terra infertile che ora brulica di animaletti svelti. Non smetto di fotografare frammenti di una vita in mòto.
So for once in my life
Let me get what I want
Lord knows, it would be the first time
Lord knows, it would be the first time
Lascio scivolare i talloni, serpenteggio decisa e risoluta con fluidità accondiscendente. Sono una buona ballerina e ho due talloni d’Achille e una scocca di Paride. Avrei, volevo, voglio, vorrei che tu ti ballassi solo, e non per me. Stringo i denti, otturo le orecchie e gli occhi sono completamente serrati. Senza accorgermene, sono ora una donna che piange al rock alternativo di un mucchio di idioti che suonano pregando qualcuno a dar loro un poco di vibralità.
E lì sono, sì, vibrante. M’adagio a terra e sento ogni periferia anatomica accesa. Sono me per attimi spergiuri, e ho parlato. Rimango lì per una mezz’ora. Quando schiudo gl’usci delle platee oculari, fuori dal sipario c’è ancora il sole. M’alzo, – è la prima volta sempre – agguanto l’arneggio fotografico e abilito autorizzando le cascate tattili a fungere da otturatore. Le chiavi sono appese. Spengo il giradischi. Mi vesto, una camicia e un pantalone leggero. Esco di casa. E’ domenica, anche se è lunedì. E io, anche oggi, ho sputato al di fuori quello ch’è più prossimo alla verità: il parossismo della coesistenza umana. Gli Smiths sono pessimi, e mi piacciono.
Una narrazione a cura di © M. A. Stanisteanu